Responsabilizzazione Diffusa
Organizzazioni senza gerarchia, auto-organizzazione, coopetizione, accountabilty. Sono le parole della moda attuale nelle discussioni aziendali. Ci sono sempre delle ondate che attraversano il pensiero di management nelle sue varie articolazioni.
Ma, scontato l’effetto moda, quello che interessa è il perché di quell’onda, in quel momento. Le parole chiave sono sintomi: per esempio, dietro il solito inglese, accountability rimanda all’affidabilità, al coinvolgimento, al farsi carico. Tutte queste parole ci parlano, insomma, di responsabilità e di fiducia. Forse perché le aziende (alcune, almeno) si stanno rendendo conto che dove il controllo comprime, la fiducia libera.
Che una responsabilizzazione diffusa porta a un salto di qualità nei risultati. Là dove si sono realizzate politiche di questo tipo, infatti, gli effetti sono stati chiaramente vantaggiosi.
Un’azienda funziona meglio se tutti si assumono la responsabilità del loro lavoro. Se a tutti viene richiesto di contribuire nelle loro possibilità all’andamento e ai risultati dell’azienda, e sul raggiungimento degli obiettivi si fonda la remunerazione. Creando, ovviamente, le condizioni perché ciò avvenga. Eppure, nonostante i risultati, questa è una scelta poco adottata.
Il modello caserma è ancora diffuso, il controllo è una resistente cultura molto italiana. Nonostante l’evidenza che la rigidità gerarchica è un punto debole: rallenta il processo decisionale e l’esecuzione, blocca in ruoli limitati le persone che così perdono la visione complessiva. E ha anche un costo elevato: dispersione di contributi di chi è messo in condizioni di lavorare senza poter esprimere le proprie capacità, concentrazione delle attività dirigenziali sul controllo invece che sullo sviluppo aziendale.
Ma il controllo è sempre un’illusione di garanzia del funzionamento dell’organizzazione, della redditività del lavoro. Passare invece a dare autonomia ai collaboratori (che agiscono comunque con vincoli di obiettivo), fa paura soprattutto a chi ha come scopo primario la difesa del proprio potere. E vede il rischio di delegare o sminuire il proprio ruolo di capo, di perdere il comando.
Chi invece lavora in un’ottica di responsabilità sa che la responsabilità non è additiva, è come la conoscenza o un sentimento: può duplicarsi, moltiplicarsi.
E nei casi di responsabilizzazione diffusa c’è un’assunzione di responsabilità ancora più alta per chi guida quella struttura: definire gli obiettivi individuali e collettivi e attuare processi che mettano in condizione di raggiungerli, sperimentare, sostenere la fiducia in sé, dare strumenti formativi, alimentare la motivazione con riconoscimenti economici e di crescita professionale… Non stupisce dunque che questo orientamento venga più da donne che da uomini.
Responsabilizzare ha a che fare con il potere, nel senso che ne contrasta la logica. E le donne, arrivate a ricoprire ruoli decisionali alti, in prevalenza non si sono adeguate ai codici di potere che in quei luoghi dominano: comando, dominio, controllo, arbitrio, autoreferenzialità. Usano invece l’autorità di ruolo non per potere personale ma per raggiungere gli scopi aziendali (non perché siano delle ingenue idealiste che non pensano alla loro carriera, al loro giusto interesse, ma perché lo perseguono attraverso la buona gestione aziendale). Le loro politiche sono perciò più spesso mirate a far crescere l’autonomia e la responsabilità di tutti rispetto al raggiungimento degli obiettivi: lo sviluppo dell’azienda passa anche dalla crescita, responsabilizzazione, remunerazione delle persone che vi lavorano.
Un paio di rapidi esempi aiutano a capire come può essere nella realtà.
Una manager responsabile di un importante settore di business in un grande Gruppo, ha trovato una soluzione organizzativa totalmente nuova, volendo avere un figlio ma senza bloccare la sua carriera. La soluzione è stata puntare sulla crescita della professionalità e della capacità decisionale di tutti i collaboratori, perché il gruppo potesse funzionare con sufficiente autonomia senza la sua continua presenza, sulla base di direttive essenziali. Con un intenso lavoro di team building e di apprendimento nella pratica, ha costruito un nuovo schema organizzativo: lavorare in gruppo a responsabilità condivisa, ognuno e tutti insieme rispondono dei risultati, e vengono premiati in base a questi. La crescita del gruppo di lavoro ha fatto crescere i risultati aziendali in modo imprevisto, tanto che quell’organizzazione è diventata il nuovo paradigma per tutta l’azienda, a prescindere dalla necessità contingente da cui era partita.
Quella manager oggi è AD di un’azienda di quel Gruppo. La responsabile del personale di un’azienda in stato di crisi, con il compito di accompagnarla alla dismissione, ha cercato invece una via per salvaguardarne la sopravvivenza: portare a termine le commesse in corso, dimostrando che l’azienda era ancora affidabile, così da ottenere altre commesse e continuare l’attività. Su questo obiettivo ha coinvolto tutti, dai manger agli operai. Con continui capillari incontri ha reso tutti consapevoli di essere artefici di un progetto per garantire un futuro per tutti. Ha chiesto molto -straordinari da recuperare poi, ferie saltate, sacrifici economici ma nella prospettiva di un interesse comune. Ha fatto leva sulla responsabilità di tutti, sulle competenze, sull’importanza del lavoro di ognuno. E l’obiettivo è stato raggiunto. L’azienda è attiva ancora oggi.
Da un’organizzazione fondata sul controllo si passa a un’organizzazione fondata sull’autonomia e responsabilità di chi lavora. In questi tempi tutte le aziende chiedono di “dare il massimo”. Ma chiederlo dentro uno schema di comando- controllo significa solo intensificare il lavoro, lavorare di più.
Responsabilizzare ha più a che fare con la qualità del lavoro: fare emergere idee e capacità nuove, con il solo vincolo di generare valore per la comunità-azienda.
Valore adeguatamente redistribuito. In questa e in altre politiche basate sullo stesso concetto, si lavora non sul costo di una persona, ma al contrario su quanto quella persona contribuisce -può contribuire- al risultato dell’azienda. Per questo sono politiche rilevanti anche sotto l’aspetto del patrimonio aziendale.
Se si usassero metriche diverse per valutare lo stato di un’azienda, i risultati di quei progetti potrebbero essere portati a valore: l’azienda ha aumentato il suo capitale, perché ha tirato fuori capacità che c’erano ma non venivano utilizzate.
Organizzare il lavoro sulla responsabilità dei collaboratori richiede fiducia reciproca, che non è idealismo ma si fonda su un patto, una garanzia di interesse comune: l’azienda dà credito all’impegno di chi lavora rispetto agli obiettivi, chi lavora dà credito all’azienda che ne avrà vantaggi di crescita professionale e di remunerazione.
Chi è a capo di quella organizzazione agisce rispetto all’azienda come garante dei risultati, e rispetto ai collaboratori non applica controlli formali che tolgono il senso di libertà e di responsabilità individuale rispetto a quello che fanno.
E’ un patto che ogni manager può fare, fa parte della sua discrezionalità. Può scegliere questa strada molto più impegnativa ma con più benefici per tutti. Tutti più liberi tutti più responsabili.
Questo articolo, come i precedenti già comparsi in questa rubrica sono estratti dal testo di un libro di Luisa Pogliana in uscita a metà settembre 2016: Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende (Guerini e Associati).
A cura di: Luisa Pogliana
Luisa Pogliana: per molti anni direttore di una staff in una grande azienda editoriale, è ora consulente di ricerca sui mercati internazionali. Ha fondato l’associazione Donnesenzaguscio, per la valorizzazione delle pratiche e dei pensieri innovativi delle donne nel management. Su questi temi ha pubblicato Donne senza guscio (2009) e Le donne il management la differenza (2012), entrambi presso Guerini.