Come si distrugge una squadra vincente

Non basta saper scegliere i migliori collaboratori possibili e metterli insieme per ottenere una squadra vincente. Per creare un team che raggiunga gli obiettivi attesi e soprattutto mantenerla tale nel tempo occorre gestirla con il giusto stile di leadership, evitando i classici comunissimi errori che i capi frequentemente commettono, spesso senza averne consapevolezza. Ecco quali possono essere le cinque regole d’oro (da evitare) per distruggere in poco tempo una squadra vincente.

Dal punto di vista aziendale (come pure da quello calcistico), oggi le moderne tecniche di selezione del personale consentono di affermare che non è difficile individuare e “portarsi in casa” professionisti di eccellenza.

Le aziende infatti spesso spendono patrimoni per condurre processi di selezione del personale qualificato, sempre più efficaci e basati su test di personalità, assessment center, sofisticati colloqui individuali e di gruppo, prove pratiche, casi aziendali, “in basket”. Il mercato del lavoro qualificato oggi in Italia è così ricco di offerta rispetto a pochi anni fa che, se si sà fare della buona negoziazione e si ha a disposizione un budget minimamente adeguato, è possibile mettere insieme squadre manageriali (o calcistiche) di primissimo livello.

Quindi tutti i team member al posto di combattimento e via, si parte alla grande!! Poi, accade spesso che il team stenta a prendere forma e i team member si muovono come singoli slegati, senza vincoli di reciproco supporto e senza un comune obiettivo, anzi dopo alcuni mesi di lavoro, queste squadre eccellenti di ottimi professionisti pian piano ma inesorabilmente si sgretolino, si frantumino in astiose contrapposizioni individuali o in sottogruppi e assumono atteggiamenti demotivati e passivi. Gli obiettivi concordati e pianificati all’interno di complessi e articolati sistemi di MBO si rivelano ben lungi dall’essere raggiunti e i programmi di cambiamento aziendale restano lettera morta. A cosa sono imputabili questi insuccessi? Errori nella selezione o piuttosto errori nella conduzione del team?

I paragoni calcistici sono facili e innumerevoli (non cito casi reali per rispetto alle tifoserie): quanti grandi campioni, costati un “occhio” alle società di Club, una volta inseriti in squadra e scesi in campo non mostrano di essere all’altezza delle aspettative? Salvo poi, una volta cambiata squadra, gli stessi si dimostrano capaci di raggiungere obiettivi e performances ben maggiori.

La cosa più difficile è quindi mantenere efficienti nel tempo questi team. Prendiamo in considerazione uno dei principali aspetti che incidono sull’efficienza di un team: il rapporto fra lo stesso ed il proprio capo diretto (dimensione verticale), senza ignorare, ovviamente, che anche i rapporti fra i membri (dimensione orizzontale) è influente anche se questo aspetto, in una certa misura, è sempre condizionato dallo stile di leadership del responsabile. Ogni squadra è per definizione “un organismo delicato e fragile”, soggetto a mutamenti temporali, alle condizioni del contesto organizzativo, allo stress professionale cui è sottoposto ma, soprattutto, alle modalite con le quali viene gestito.

La saggezza popolare cita un vecchio adagio dialettale che tradotto dice: “il pesce puzza dalla testa!”, facendo riferimento alla rilevanza che ha l’abilità di chi è in testa alle organizzazioni. Fermo restando i casi in cui i singoli team member non si rivelano capaci o “remano contro” per motivi personali soggettivi, quasi sempre i team non funzionano per le carenze di leadership dei capi o, più semplicemente, a causa di approcci comunicativi e comportamentali molto discutibili ed approssimativi.

L’insuccesso finale del team è quasi sempre imputato solo all’incapacità dei collaboratori in quanto sovente non c’è consapevolezza da parte dei capi dell’effetto che ha il proprio modo di agire. Imprenditori, dirigenti, manager quadri intermedi agiscono spesso d’istinto, quello stesso istinto che li ha condotti a ottenere grandi risultati in altri ambiti aziendali; spesso costoro hanno indubbie competenze manageriali, strategiche, finanziarie, commerciali, tecnologiche e quant’altro ma nella gestione dei collaboratori scarseggiano di competenze. Più i collaboratori team member sono qualificati, con esperienza e capaci professionalmente, più è difficile gestirli dall’alto (pensate ai coach in ambito calcistico contrapposti a certe “prime donne” in campo). Prendiamo in considerazione i comportamenti dei capi che generano le reazioni più distruttive nei collaboratori migliori. Bisogna sottolineare che non sempre c’è intenzionalità in tali comportamenti, a volte si agisce senza consapevolezza.

Proviamo quindi ad elencare i comportamenti peggiori, quelli che potrebbero costituire “le cinque regole d’oro” per distruggere un team:

Comunicazione “one way”: quando il capo comunica senza ascoltare, non sa o non vuole porre domande, non dà e non raccoglie feedback, ama fare riunioni solo per affermare, ordinare e non per discutere e confrontarsi, preferisce impostare uno schema comunicativo “a stella” in cui tutto passa per il capo e non vi è circolazione di informazioni. I membri del team non sanno cosa è stato comunicato agli altri e quindi loro stessi tendono a non mettere in comune idee e proposte, nel timore che possano essere riportate al capo in modo distorto o discusse in loro assenza. La reazione del collaboratore sarà quella di pensare: “io avrei una bella soluzione al problema ma è meglio tacere, non si sa mai”. Nessuna sinergia, nessuna creatività generativa di nuove soluzioni o innovazioni germoglierà in quel contesto.

Divide et impera (mettere i collaboratori l’uno contro l’altro). E’ un classico nella storia dei capi, i quali ritengono, così facendo, di mantenere il proprio potere di controllo. Ciò viene applicato in una serie di modalità comportamentali diverse. Esempio: preferisce non dare troppo spazio ai collaboratori, soprattutto in pubblico, ritiene che essi debbano dire solo quello che è richiesto loro di dire, parlare solo ad una persona per volta “in camera caritatis” (preferibilmente nell’ufficio del capo), accettare le delazioni dei collaboratori anzi incoraggiarle, fare allusioni ai difetti o ai limiti degli altri colleghi promuovendo così la critica distruttiva. La reazione dei collaboratori è quella di dedurre: “Qui non mi fido più di nessuno, quindi io non collaboro più con nessuno!”. La microconflittualità larvata e strisciante, quando non già esplicita, troverà terreno fertile in quel clima di sospetto e sfiducia.

Non delegare, non responsabilizzare: quando il capo non assegna mai incarichi precisi ma generici in modo da poterli cambiare, non chiede mai di fare cose in autonomia, non dà mai autorizzazioni a procedere senza avere già deciso tutto nel minimo dettaglio. Ciò significa non credere in nessuno, non far crescere nessuno e, di conseguenza, accentrare tutte le decisioni su di se, anche quelle più banali. Così facendo il capo inibisce lo sviluppo degli atteggiamenti problem solving nei propri collaboratori e soprattutto si ingolfa di attività che non gli competono, rallentando inevitabilmente il processo decisionale. Pertanto la somma delle decisioni non prese o rinviate inficiano qualsiasi processo di miglioramento aziendale e immobilizzano le energie del team i cui membri si diranno fra loro: “Inutile prendersi responsabilità, tanto decide tutto lui!”. Di lì a poco il team sarà anche accusato di inefficienza e immobilismo, i suoi membri di essere fannulloni.

Non premiare mai nessuno, neanche con encomi verbali. Spesso i capi ritengono che sia bene evitare di fare apprezzamenti positivi ai collaboratori bravi perché pensano che possano “montarsi la testa” col rischio che poi chiedano un aumento. Se un team di lavoro ha ottenuto un buon risultato essi ritengono e a volte commentano in pubblico:“il team ha fatto solo il suo dovere”. In tal modo il capo rinuncia al suo potere premiante che è una delle maggiori leve di conduzione dei collaboratori. La conseguenza principale che si produce è il cosiddetto “effetto appiattimento”, ovvero: “Chi ce lo fa fare a darci da fare? Tanto non abbiamo nulla da guadagnarci!” sostengono giustamente i membri della squadra che, la volta successiva, si muoverà al risparmio.

Cercare le colpe non le cause. Gli insuccessi nelle organizzazioni possono diventare fonti inesauribili di miglioramenti e di innovazioni se si riesce a farne buon uso mediante valutazioni e confronti successivi. Spesso invece i meccanismi che scattano, anche quando si cerca di capire le cause dell’insuccesso, sono orientate alla ricerca del colpevole. Individuare il responsabile degli insuccessi e colpevolizzarlo, meglio se in pubblico, diventa la cupa modalità di reazione. E’ l’eterno fenomeno del “capro espiatorio”, sport così diffuso in tutte le organizzazioni ed in tutti i team che si “purificano” in tal modo dall’errore sacrificando un proprio membro. Se il capo non sa fermare tali meccanismi o addirittura li favorisce (esercitando solo il suo potere coercitivo) il destino di quella squadra è segnato: l’apprendimento organizzativo è bloccato, non si potrà far tesoro da nessuna esperienza; il retropensiero dei membri sarà: “Se le cose vanno bene è merito del capo, se le cose vanno male è sempre colpa di un collaboratore; invece che pensare alla risoluzione dei problemi, devo preoccuparmi di proteggermi …”. Oppure, ancor peggio: “Oggi è toccato a lui ma domani il processo accusatorio potrebbe toccare a me, meglio fuggire da questo posto!”

Uno o più comportamenti di questo elenco generano nel team frustrazioni profonde; scoraggiamento e delusione dilagano nell’animo anche dei collaboratori migliori, il clima organizzativo è cupo, senza fiducia reciproca, caratterizzato da sospetti, pregiudizi, ambiguità. I sintomi si possono cogliere in anticipo osservando ad esempio la pessima circolazione di informazioni, l’eccesso di comunicazione scritta, soprattutto tramite e-mail, che rivela atteggiamenti del tipo: “Io te l’avevo scritto quel tal giorno, la responsabilità quindi è solo tua!”.

Si riscontra la mancanza di quel senso di appartenenza ad un comune organismo collettivo che genera la fierezza e l’uso orgoglioso del NOI. Sono cose di cui sono piene le aziende e, in generale, le organizzazioni che pagano un prezzo altissimo in termini di inefficienza, di clima interno teso, di spreco di energie e quindi di mancato raggiungimento degli obiettivi strategici.

Non bisogna meravigliarsi, quindi, quando i collaboratori migliori danno le dimissioni perché, è bene ricordare che, sono solo i migliori che danno le dimissioni. Possiamo etichettare tutto ciò come conseguenze di una delle tante forme di “leadership negativa”, Il team invece che riconoscersi nel proprio capo e “legittimare dal basso” il suo ruolo gerarchico e organizzativo affidandosi a lui, sviluppa nei suoi confronti una malcelata insopportazione che col tempo si trasforma in rancore manifesto o semplicemente covato dentro.

In conclusione possiamo affermare che il rapporto fra lo stile di Leadership e le Soft Skills, che inevitabilmente il capo mette in campo ogni giorno, è inestricabile ed imprescindibile.

Per tenere insieme un team vincente non devono mancare da parte sua coerenza, lealtà, capacità di infondere autostima nei collaboratori, di trasmettere passione e voglia di impegnarsi, di condividere valori motivanti e di dare una vision credibile e condivisa a quel che la squadra si impegna a fare.

A cura di: Vito Carnimeo Senior management consultant & Coach

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