Smart Working: verso una leadership agile

Lo smart working, letteralmente lavoro agile, si configura come un nuovo approccio dell’organizzazione verso il lavoro e il dipendente, approccio capace di superare il format della prestazione vincolata ad una sede e a degli orari e di offrire spazio ad una cultura manageriale che fondi il perseguimento di obiettivi – e, dunque, misuri la performance – sui risultati anziché sul numero di ore lavorate ovvero di procedimenti curati.

Se prendiamo in considerazione la definizione che ne fornisce la legge, vale a dire una “modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementarne la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” appare possibile sinteticamente chiarire che nel nostro Paese a legislazione vigente [1] – lo smart working consiste in una prestazione lavorativa che si differenzia da quella comunemente in uso, in quanto eseguita in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno ed entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva; inoltre, l’attività lavorativa può essere svolta tramite l’utilizzo di strumenti tecnologici che assicurano la maggiore flessibilizzazione dei processi lavorativi e permettono ai lavoratori di operare in asincrono.

Lo smart working, dunque, prima di ogni altra cosa è un concetto organizzativo, come definito da Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano:

“Lavoro agile significa ripensare il telelavoro in un’ottica intelligente, mettere in discussione i tradizionali vincoli legati a luogo e orario, lasciando alle persone maggiore autonomia nel definire le modalità di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Autonomia, ma anche flessibilità, responsabilizzazione, valorizzazione dei talenti e fiducia diventano i principi chiave di questo nuovo approccio”.

Ciò che stiamo vivendo è la terza Rivoluzione Industriale, definita da Rifkin Jeremy l’età del Commons Collaborativo: una rivoluzione digitale che ridelinea modelli e strutture verso piattaforme (tecnologiche e umane) aperte e collaborative.

In Italia sono 250 mila i lavoratori “agili”, ovvero circa il 7% di tutti gli impiegati, quadri e dirigenti. In soli tre anni il numero di coloro che praticano lo smart working è cresciuto del 40%.

Anche nella Pubblica Amministrazione comincia a farsi strada un modello di lavoro smart: oltre 4 mila dipendenti pubblici operano in remoto (880 in più ogni anno) e oggi l’8% delle pubbliche amministrazioni ha progetti strutturati di lavoro agile (contro il 5% del 2017); l’1% ha attivato iniziative informali e un altro 8% prevede di attivare progetti di smart working nel prossimo anno.

Fig. 1 – Il modello dello smart working (Osservatorio Smart Working, 2014)

Per realizzare lo smart working sono basilari alcune dimensioni: autonomia e responsabilità; spostamento del focus da presenza a risultato; diffusione di una cultura basata sulla fiducia e non più sul controllo; leadership partecipativa; attitudine a utilizzo di strumenti digitali; definizione di precisi key performance indicator (KPI) per valutare i risultati delle attività svolte.

I principi alla base dello smart working risultano essere, quindi, autonomia e responsabilità. Non è facile lavorare al di fuori degli spazi canonici (logistici e funzionali) dell’ufficio: richiede spiccate competenze di organizzazione, di orientamento agli obiettivi e ai risultati, di problem solving nonché di concentrazione, per non correre il rischio di farsi assorbire dalle pratiche quotidiane facilmente accessibili nell’ambiente (anche domestico) in cui si svolgerà il lavoro, o essere agevole preda di distrazioni nel caso di ambienti non convenzionali. E chiaramente è richiesto di avere solide competenze informatiche per poter tracciare e rendicontare il frutto del proprio lavoro, da discutere con una figura chiave: il leader agile, che ha il compito sia di ricondurre le regole agli obiettivi di lavoro, lontani da un approccio comando-controllo, sia di alimentare nuove modalità operative e prendere le decisioni per effettuare riunioni di lavoro.

Al leader agile spetta il compito di sostenere, attraverso un modello basato su feedback di miglioramento e di riconoscimento, le performance (oggettivamente inequivocabili) e i comportamenti del proprio team attraverso una cultura basata sulla fiducia, anche quando si verificano risultati disattesi rispetto agli obiettivi concordati. A questa figura compete di generare opportunità di crescita sugli errori dei colleghi, oltre che di rendersi il punto di riferimento stabile che riconduce ogni attività allo scopo primario di successo per l’azienda.

La fiducia diventa elemento essenziale nelle relazioni aziendali, fondamentali per un corretto funzionamento dell’impresa, mentre la flessibilità costituisce il tratto distintivo dei nuovi modelli di lavoro, che sempre più devono adeguarsi ai continui mutamenti del moderno contesto competitivo. Altri due aspetti chiave dello smart working si sostanziano nella collaborazione e nella comunicazione. L’autonomia sul lavoro, infine, favorisce un maggiore coinvolgimento dei dipendenti ad ogni livello dell’azienda.

Altro elemento che supporta lo smart working è il gruppo di lavoro, che per soddisfare i requisiti di complementarietà e di autosufficienza in termini di competenze e di ruoli, ha bisogno di nutrirsi attraverso la relazione: ecco che il coordinamento e lo scambio di conoscenze tra team risulta essere un ulteriore importante elemento attraverso il quale il leader agile diventa coach e può portare a valorizzare ed estendere esperienze virtuose, ma anche rendere note le esperienze più critiche su cui generare nuove soluzioni e opportunità di apprendimento utilizzando il confronto esteso e la leadership partecipativa, che mantengono il collante tra le persone al lavoro che facciano parte della stessa realtà.

Da quanto innanzi, risulta di tutta evidenza come il cambiamento sostanziale, conseguente all’adozione dello stile del “lavoro agile”, debba riguardare innanzitutto la leadership, atteso che, abbandonata la logica del controllo, è indispensabile adottarne una che faccia della fiducia il fulcro dell’iniziativa innovativa, dando enfasi al senso di appartenenza, facendo sentire le persone al lavoro parte di una comunità, mettendo da parte il rapporto gerarchico. Una leadership dunque che, sentendo la necessità di indirizzare la propria azione verso il raggiungimento degli obiettivi, dismettendo i parametri del tempo e della presenza, utilizzati artificialmente per la misurazione della performance, investa sui processi di delega ampliando autonomia e responsabilità individuale [2].

Il “lavoro agile”, infatti, parte dal presupposto che occorre avere fiducia verso le persone al lavoro nella consapevolezza che esse porteranno a termine i compiti ricevuti, sebbene in assenza di un controllo a vista. Si tratta allora di introdurre nella relazione capo-collaboratore elementi quali l’obiettivo o il termine (la scadenza), condividendo la consapevolezza che il processo teso all’obiettivo non può essere limitato.

Per molte organizzazioni la principale barriera alla implementazione dello smart working ha a che fare con il cambiamento culturale. È di tutta evidenza, in realtà, che acquisire nuove tecnologie o distribuire gli spazi delle postazioni di lavoro in maniera non tradizionale da solo non risulta sufficiente alla diffusione della fiducia ed al pieno riconoscimento della responsabilità. Sull’esempio olandese, inoltre, il lavoro agile dovrebbe essere un diritto del lavoratore; oggi solo l’impresa può decidere se usarlo o meno, e lo fa in base ad una logica spesso casuale e contingente [3].

Da qui il bisogno di fare crescere nei lavoratori la responsabilità del risultato, in grado di produrre effetti, rispetto alla crescente necessità di soddisfare le esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, nello spirito del “work life balance”. Per raggiungere tali traguardi appare indispensabile, da un lato, favorire lo spirito di collaborazione con valorizzazione dei talenti, così da fare maturare relazioni professionali che fondino sulla gestione intelligente del lavoro; dall’altro, garantire l’accesso a strumenti e sistemi tecnologici che assicurino la massima condivisione delle informazioni e la veicolazione delle comunicazioni occorrenti ad elevare la performance delle persone al lavoro.

Emerge, dunque, l’esigenza di pensare a nuovi spazi fisici, evolvendo dal layout tradizionale, basato essenzialmente sulla fisicità delle pareti di un ufficio, verso una varietà di ambienti progettati per adattarsi al meglio a diverse tipologie di attività.

Il contesto innovativo può caratterizzarsi anche per la presenza di differenti professionalità, così da promuovere la costituzione di gruppi di lavoro in grado di catalizzare persone orientate all’innovazione e alla collaborazione come nell’esperienza del co-working [4], che si basa su tre parole chiave:

  • sviluppo,
  • imprenditorialità,
  • innovazione.

Tocca al processo di innovazione il merito di realizzare un ambiente molto più stimolante, in cui sono favorite la generazione di idee e l’innovazione, prodromiche a una maggiore opportunità di apprendimento non disgiunta, peraltro, da una riduzione dei costi immobiliari [5].

Il coworking, quindi, è un nuovo modo di lavorare in assenza di rivalità. I cosiddetti coworker possono interagire in modo tale che ognuno, pur svolgendo in maniera indipendente il proprio lavoro, metta il proprio talento al servizio di un progetto comune. Si tratta di quel luogo dinamico in cui diverse persone, anche non operanti nello stesso settore o medesimo progetto, lavorano condividendo l’ambiente fisico e le risorse di un normale ufficio. Ovviamente, anche quando il lavoratore svolga la propria prestazione fuori dai locali aziendali – non essendo necessario che utilizzi una postazione fissa – il datore di lavoro resta comunque responsabile della sicurezza sia dei lavoratori che dei dati e dei software della organizzazione, con l’onere di dovere garantire il pieno e regolare funzionamento di questi ultimi [6].

L’analisi esposta conduce a sostenere la necessità di un collegamento intimo del Job Crafting con specifici percorsi formativi, che interessino tutti i livelli dell’organizzazione, atti a portare alla responsabilizzazione delle persone al lavoro, accrescendo il patto di fiducia instaurato con l’organizzazione – aspetto, quest’ultimo, altamente motivante.

Quale punto di forza dell’organizzazione, peraltro, la formazione rappresenta l’occasione per diffondere/ampliare l’utilizzazione delle nuove tecnologie utili, soprattutto, ad accrescere e accelerare il processo di acquisizione di autonomia della motivazione. A fianco di percorsi formativi adeguati deve trovare posto anche una revisione dei concetti di spazio e di tempo; così come ha necessità di ridefinire il concetto di prestazione lavorativa, che necessariamente non può restare ancorato a coordinate misurabili nel rapporto spazio-tempo.

Note

[1] Legge 22 maggio 2017, n. 81, “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato.”

[2] Cfr. F. Bochicchio, T. Di Sabato, Apprendimento e cambiamento nelle organizzazioni, Libellula edizioni, Tricase, 2018.

[3] P. Di Nicola, Dal telelavoro allo smart work, “Lavoro welfare”, 21(3), 2016, pp. 5-9.

[4] Il coworking nasce nel 2005 quando Brad Neuberg fonda il primo spazio di coworking, la “Hat Factory”, in un loft a San Francisco. Il termine letteralmente significa “lavorando con” e diviene di uso comune nel 2009 per definire lo spazio di lavoro basato sulla collaborazione e sulla condivisione innanzitutto di valori comuni oltre che di ambienti e di servizi.

[5] Cfr. I. Pais, Il coworking può rinnovare le politiche del lavoro, “Vita e Pensiero” 4, 2013, pp. 47-53.

[6] Secondo la ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, diretto da Fiorella Crespi, sono già oltre 250 mila gli Smart Workers in Italia. Dall’analisi, svolta nel 2016 in collaborazione con Doxa su un campione di 339 manager delle funzioni IT, HR e Facility, oltre a un panel rappresentativo di 1.004 lavoratori, è emerso che il livello di soddisfazione e di engagement è superiore a quello della media dei lavoratori. In particolare, è stato rilevato un elevato grado di soddisfatta stante la possibilità di conciliare il lavoro con la vita privata. Inoltre, è stato registrato che l’opportunità di crescita professionale è doppia rispetto alla media del campione. Così come al di sopra delle aspettative sono anche i benefici misurati dal lato delle imprese che, oltre a compiacersi per una rilevante riduzione dei costi di gestione degli spazi, hanno riscontrato una diminuzione sia di turnover sia di assenteismo, con un aumento della produttività che va oltre le aspettative.

 

Articolo a cura di Vanessa De Giosa e Tommaso Di Sabato

Profilo Autore

Dottore di ricerca in Sociologia e docente a contratto di Sociologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università del Salento, si occupa anche di cultura e comunicazione, svolgendo attività di studio su teorie organizzative e metodologie della ricerca.
Attualmente Capo Ufficio Piani Formazione e Sviluppo competenze, è stata nominata componente di UniSalento in seno all’assemblea del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione CO.IN.FO.

Profilo Autore

Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.

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