Storytelling: maneggiare con cura!
“…il racconto comincia con la storia stessa dell’umanità; non esiste, non è mai esistito in alcun luogo un popolo senza racconti…”
Crediamo che tutti concordino con questa affermazione di Roland Barthes, il grande scrittore e saggista francese[1].
Se questo è vero, è anche vero che solo in epoca recente si è sviluppato un processo di riscoperta e valorizzazione della narrazione (“narrative turn”) in ambito aziendale. Ciò è avvenuto perché si è capito che i racconti e le narrazioni in genere giocano un ruolo chiave nel processo di interpretazione e comprensione del mondo da parte della mente umana.
I racconti e le narrazioni possono favorire il compito di quei soggetti che hanno necessità di farsi conoscere e far conoscere la propria attività ma anche, e soprattutto, di costruire e promuovere attraverso di essi un senso e un valore condivisi al loro interno (organizzazioni e persone), che possono essere facilmente trasmessi agli altri, ricordati, insegnati, il tutto in un clima di empatia e partecipazione.
Da qui il grande successo nelle aziende dello storytelling, termine con una sua definizione ufficiale che prendiamo dal NSN – National Storytelling Network [2] l’organizzazione statunitense che si occupa della promozione e della diffusione dello storytelling: “Lo storytelling è l’arte interattiva dell’uso di parole e azioni per rivelare gli elementi e le immagini di una storia, incoraggiando l’immaginazione dell’ascoltatore”[3].
Perché le storie ci affascinano tanto?
Dalla barzelletta, che ha un contenuto umoristico, all’aneddoto che riprende fatti della vita quotidiana con intenti ricreativi o moralistici e che può diventare aforisma, se si condensa in una affermazione icastica, fino all’apologo, con connotazioni più pedagogiche, per approdare alla semplice storia, alla narrazione pura di fatti, quando qualcuno ce li racconta la nostra attenzione resta alta, siamo affascinati, e vogliamo assolutamente sapere come andrà a finire (che frustrazione perdere il finale di una storia, anche di una semplice barzelletta!).
Vediamo di capire in modo sintetico perché la storia – uno strumento di comunicazione in fondo tanto semplice – ha un così grande effetto sulle persone.
Il motivo principale è che l’uomo pensa attraverso schemi narrativi e ha un bisogno fisiologico di credere in qualcosa. Inoltre, quando si ascolta una storia, si assiste al cosiddetto fenomeno del neural coupling che consiste in un allineamento cerebrale dei cervelli di coloro che sono coinvolti nella storia (si veda l’effetto specchio scoperto dallo scienziato Rizzolatti). Infine, le storie hanno la capacità di suscitare emozioni e creare una connessione emozionale con l’audience.
In altri termini, cosa succede a una persona quando ascolta una storia? Cade in uno “stato di coscienza alterato rispetto alla norma, che porta ad identificarsi completamente con l’oggetto della narrazione e con chi sta raccontando, inducendolo a sospendere la sua incredulità”[4].
In particolare, questo stato di coscienza prende il nome di “trance narrativa d’ascolto” e consiste in un’esperienza estremamente coinvolgente che spinge l’uomo ad abbandonarsi totalmente al piacere dell’ascolto, che deriva dal suo bisogno innato di credere.
La criticità sta nel fatto che la persona è portata a sospendere la propria ”incredulità”, il che rappresenta uno degli aspetti più problematici dal punto di vista etico dello storytelling. In altri termini, chi ascolta la storia è disposto a credere a tutto quello che gli si dice. Ribadiamo il concetto: non perché chi ascolta sia sciocco ma al contrario per una sua naturale predisposizione all’ascolto che lo porta, automaticamente, ad abbassare la “guardia del pensiero critico”.
A cosa serve raccontare storie?
A tutti piace ascoltare delle storie e tutti le raccontiamo. Lo facciamo fin da bambini, per farci conoscere, per convincere, condividere, informare, influenzare una scelta o orientare un comportamento. Ma lo facciamo in modo naturale e spontaneo; raramente realizziamo racconti strategici, in grado cioè di produrre degli effetti ben precisi e mirati sugli ascoltatori. A meno che il nostro compito non lo preveda esplicitamente, come nel caso dei manager di un’azienda. Ma su questo tema torneremo più avanti.
Dal punto di vista delle organizzazioni, l’uso di storie risponde a precisi obiettivi, tra i quali la necessità di creare una “narrazione permanente di personalità e marca” attraverso la quale costruire l’identità aziendale; dal punto di vista dei prodotti e dei servizi, le storie rappresentano invece uno strumento efficace per promuovere e posizionare i prodotti.
Precisiamo ancora una volta che fare narrazione di impresa attraverso lo storytelling non vuol dire semplicemente raccontare storie, ma studiare strategicamente il funzionamento dei racconti in relazione alla efficacia che vogliamo raggiungere.
D’altra parte, fare storytelling per un’azienda non significa assumere un atteggiamento autocelebrativo, né parlare in modo esclusivo di essa. Vuol dire scegliere un modello comunicativo che possa:
- orientare, cioè tracciare una rotta in un contesto caotico e turbolento;
- valorizzare, cioè creare valore ed essere una presenza rilevante per i propri interlocutori;
- crescere e far crescere, cioè agire con rapidità ed efficacia, intervenendo sui processi vitali per la salvaguardia e lo sviluppo del business;
- condividere, cioè costruire relazioni solide, basate su fiducia, coinvolgimento e partecipazione, per dare e ricevere supporto;
- governare, cioè agire sul cambiamento culturale e organizzativo, guidandolo invece di subirlo.
Non trascurare la capacità di condizionamento dello storytelling
Lo storytelling è uno strumento delicato e pericoloso e come ogni strumento va usato con cautela, cercando di essere corretti nel raccontare le storie: il che significa, a prescindere dalla loro verosimiglianza, che le premesse da cui si parte nel narrarle siano vere e che, possibilmente, lo storytelling favorisca, anziché reprimere, lo sviluppo di uno spirito critico, attraverso gli spunti che le storie raccontano.
Gli studiosi hanno evidenziato diversi condizionamenti nei quali si può incorrere quando si ascoltano delle storie. Li hanno definiti pattern-recognition. Vediamone alcuni:
- tendiamo a ricordare e credere più facilmente quando un insieme di fatti viene presentato come una storia che ha una sua intrinseca coerenza e una sua logica;
- tendiamo a generalizzare, basandoci su esempi che sono particolarmente recenti o memorabili, oppure scelti ad hoc da qualcuno;
- tendiamo a sovrastimare l’evidenza di cose quando sono in linea con quello che crediamo e a sottostimare quella di cose nelle quali non crediamo, e siamo sempre portati a parteggiare per l’“eroe” (che, nella esposizione narrativa, come sostiene Johnathan Gottschall[5], siamo noi);
- ci affidiamo all’analogia con situazioni e storie che in realtà non sarebbero comparabili tra di loro;
- tendiamo a credere alle storie che ci vengono raccontate in base all’esperienza, all’“autorità” e all’“autorevolezza” (ricordiamo che gli ultimi due termini derivano dal latino “auctor”) di chi le dice, piuttosto che ai fatti che le supportano.
L’uso dello storytelling da parte dei manager
Come deve collocarsi il discorso manageriale di fronte a questi pericoli? Immaginiamo schematicamente la funzione dello storytelling come un semplice incrocio di assi cartesiane.
L’asse verticale ha un elevato interesse per il formatore. Nella metà inferiore ci sono i fatti: cioè l’area in cui si situano l’esperienza e la competenza. Nella metà superiore c’è la simulazione, la virtualità.
Una learning experience efficace potrà realizzarsi nell’equilibrio tra il reale e il virtuale, tra la ricerca dei fatti e l’immaginazione, l’idea del futuro e del cambiamento, poggiando le basi sull’esperienza e la competenza. Lungo l’asse orizzontale, poi, ci spostiamo dalla direzione della narrazione, che non ha basi concrete ma è più legata alla fantasia, verso quella della scienza empirica, della logica.
Questa è l’area di lavoro, che non va mai sottovalutata né confusa con quella di sinistra, che contiene elementi di svago, rigenerazione, gioco, importanti ma non strategici. Mantenere un equilibrio tra area finzionale e contenutistica diventa importante se non si vuole ridurre l’efficacia di questo delicato strumento comunicativo.
Note
[1] AA.VV., L’analisi del racconto, Bompiani, 1969.
[3] “Storytelling is the interactive art of using words and actions to reveal the elements and images of a story while encouraging the listener’s imagination”.
[4] Andrea Fontana, Joseph Sassoon, Ramon Soranzo, Marketing narrativo, F. Angeli, 2011.
[5] Jonathan Gottschall, L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno resi umani, Bollati Boringhieri, 2018.
Articolo a cura di Ugo Perugini
Ugo Perugini. Giornalista, blogger, collaboratore di “Vendere di più”- https://www.venderedipiu.it/, “Az Franchising” - https://azfranchising.com/az-franchising-magazine/ -, DM&C - http://www.dmcmagazine.it ; HR on line - www.aidp.it/riviste/indice-hronline.php. In passato, ha collaborato con “Beesness”- www.beesness.it ; Together HR, blog di Sky Lab http://www.togetherhr.com/bloghr-blog-risorse-umane/- “Senza Filtro” https://www.informazionesenzafiltro.it e altre pubbllicazioni
Il blog che cura è https://capoversonewleader.wordpress.com/