Strumenti motivazionali a sostegno dei caregivers formali e informali

La parola caregiver – “colui/colei che fornisce cure” – descrive una persona che accudisce chi, per diversi motivi (demenza, malattia, disabilità) ha subito una perdita di autonomia. Possiamo distinguere tra caregivers professionali, ossia personale specializzato e abilitato (infermiere, assistente domiciliare/familiare) e caregivers informali o familiari, ovvero un familiare che supporta e cura il proprio caro nella quotidianità.

Sebbene il “prendersi cura” dell’altro sia un atto positivo e un’importante qualità, è necessario operare delle distinzioni.
Il caregiver formale sceglie questa attività come professione e predisposizione all’aiuto. Il caregiver informale, invece, aiuta il proprio caro perché mosso da un sentimento di affetto, e al contempo da un senso del dovere tanto elevato da determinare un obbligo implicito. Ciò potrebbe condurre a pensare che nel primo caso l’azione di cura risulti più semplice, in quanto spogliata da emozioni e vissuti familiari che inducono reazioni psicologiche molteplici e svuotano la relazione d’aiuto. Non è così. Entrambi i casi sono caratterizzati dal rischio di caregiver burden, definito come “peso dell’assistenza”, che si traduce in disagio psicologico connotato da ansia, depressione e malessere fisico e in un carico soggettivo che giunge ad investire anche gli aspetti socio-economici. Si tratta dunque di un concetto multidimensionale che si ripercuote globalmente sulla qualità di vita di coloro che si occupano di una persona fragile e che di fatto sancisce una mancanza di motivazione nel caregiver: l’insieme dei bisogni alla base del comportamento che rappresenta l’esito dell’agire non sono più soddisfatti. Secondo la “piramide dei bisogni di Maslow”, se vengono a mancare i bisogni primari (come il sonno, l’alimentazione regolare) e secondari (ad esempio cooperazione e successo), l’individuo non sarà nelle condizioni di soddisfare quelli di livello superiore, ovvero perseguire la propria soddisfazione personale, nel campo delle affettività, nell’ambito del lavoro e della professione, il vivere in conformità con i propri principi morali.

Per completare il quadro, va tenuto presente come le dimensioni di cura e assistenza siano incorse in mutamenti significativi nella contemporaneità: da elemento di cifra domestica, la cura è stata progressivamente spostata entro le mura istituzionali. Il corrispondente processo di “medicalizzazione” di malattia e disabilità (intesa come riduzione al mero livello del “biologico”) ha dato un fondamentale contributo nell’amplificare la crisi dinnanzi alla presa in carico: l’inquadramento pressoché esclusivo entro uno scenario di cifra bio-medica sottrae infatti al caregiver una serie di ancoraggi di natura simbolico-valoriale indispensabili a conferire alla patologia un significato che vada oltre la semantica della nuda corporeità, e a fornire conseguentemente un perimetro entro il quale inscrivere i gesti di cura e assistenza capace di trattenere la dimensione socio-esperienziale che essi chiamano necessariamente in causa. Non va inoltre trascurato l’effetto che disabilità e malattia possiedono sulla rappresentazione normativa di persona: laddove, nel contesto attuale, a fare l’individuo sono in prima battuta i caratteri di autonomia e performance, il caregiver è di fatto chiamato a fronteggiare un totale o parziale sovvertimento di tale immaginario in chi assiste, con il conseguente carico di stress derivante dalla mancata corrispondenza tra “ideale” dell’altro ed esperienza quotidiana reale che ne fa.

Come trasformare, dunque, la sfaccettata condizione di stress vissuta da coloro che si prendono cura in una spinta motivazionale?

Secondo Galleway, esperto psicologo e coach, le persone hanno due sé, che, se non bilanciati, possono causare molto stress: il Sé 1 è responsabile di pensiero, istruzione, giudizio e della preoccupazione; il Sé 2 è responsabile dell’azione. Più i due sono in equilibrio, maggiori sono le risorse interiori per la creazione di stabilità e resilienza. Quando ci proponiamo un obiettivo (ad esempio, quello della cura dell’altro) o compiamo un’azione, avvertiamo di frequente una critica interna, una voce interiore che interrompe i nostri processi di pensiero, giudicando ciò che facciamo: non è altro che il Sé 1. Nel momento in cui concediamo a quest’ultimo di dominare i nostri pensieri, finiamo per sopprimere le risorse del Sé 2. Il Sé 1 innesca il sistema dello stress, impegna in comportamenti di lotta tra il pensiero di cosa “si deve ed è giusto fare” e l’azione naturale del preservarsi. Al fine di stabilire una coesistenza pacifica tra i due, è necessario riportare a galla il “vero” Sé, occultato dagli strati di giudizio creati dal Sé 1, lasciando andare le abitudini e i pensieri determinati dal Sé 1 e identificando le qualità legate al Sé 2.

Per mettere in atto tale cambiamento, possono venirci in aiuto tre principi di apprendimento:

consapevolezza: è quando il caregiver aumenta la consapevolezza relativamente ad una situazione difficile che diviene possibile cambiarla. Gli individui devono cercare di focalizzare la propria consapevolezza sulle variabili critiche di una situazione – elementi che sono sia suscettibili di cambiamento, sia essenziali per il raggiungimento del risultato desiderato. Concentrarsi sulle variabili critiche fornisce informazioni importanti su come muoversi verso nuovi obiettivi;

scelta: la consapevolezza è una scelta. Spesso i caregivers sono inconsapevoli delle scelte che compiono nella quotidianità, finendo per sentirsi stressati e instabili. Devono dunque imparare ad esercitare la capacità di operare scelte consapevoli, informate dai desideri intrinseci e mai legate alla comodità o al piacere altrui;

fiducia: facilita il movimento verso il risultato desiderato. I caregivers devono avere fiducia nelle proprie capacità, ossia fidarsi del Sé 2. Quando sentono di possedere le risorse necessarie per vincere lo stress, la loro fiducia diventa fondamento della loro stabilità.

La stabilità diventa così resilienza. Un caregiver resiliente è colui la cui esperienza risulta sperimentazione di modalità flessibili e adattabili dell’“andare avanti”.

Quali gli strumenti per incentivare una motivazione costante e crescente – e per ritrovarla, qualora perduta?

Il modello GROW (Goal, Reality, Options, Will) di Whitmore si focalizza sul raggiungimento di obiettivi per tenere alta la motivazione nello svolgere un’attività. Metaforicamente, il modello GROW è ciò di cui si ha bisogno per pianificare un viaggio. Si parte dalla mappa: dove si va (Obiettivo) e da dove si viene (Realtà)? Si tracciano poi diversi percorsi e diverse modalità di trasporto (Opzioni). Infine, si individua l’opzione più adatta alla persona. Fondamentale è il focus sugli obiettivi. Nel momento in cui il soggetto deve affrontare un compito complesso come quello della cura, è necessario che si ponga obiettivi SMART, da conquistare giorno per giorno. Ogni obiettivo deve essere Specifico, Misurabile, Accessibile, Rilevante, Tempificato. Laddove il caregiver si trova spesso sobbarcato da compiti lunghi, complessi e impegnativi, affrontarli in questa prospettiva aiuta a diminuirne la complessità e a percepire il compito stesso più semplice perché parcellizzato. Disegnata la mappa dell’intero percorso di cura, e bilanciati i propri bisogni con quelli della persona con cui si prende cura, la motivazione risulterà massimizzata.

Se tali strategie si appellano alle risorse e all’investimento individuale, appare tuttavia necessario che, più in generale, l’impianto socio-sanitario si renda maggiormente permeabile a un approccio “narrativo” in cui le dimensioni che informano cura ed assistenza- fisica, esperienziale, sociale e simbolica- siano avvalorate. Offrire all’individuo spazi di riflessività strutturati, in cui negoziare con le figure professionali “narrazioni” e scenari di senso dove queste dimensioni possano confluire e compenetrarsi, non consente solo di sancire una più efficace alleanza terapeutica, ma anche di accompagnare il soggetto nel “mai concluso” processo di “orientamento” nel difficile ruolo di caregiver, sia esso formale o informale.

 

Bibliografia

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Whitmore, J., (2009) Coaching for Performance: GROWing Human Potential and Purpose – The Principles and Practice of Coaching and Leadership, 4th Edition

 

Articolo a cura di Adele De Stefani e Stefania Macchione

Profilo Autore

Dott.ssa Adele De Stefani, antropologa specializzata in antropologia medica e sociale. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Umanistici Interculturali e un Master in Cooperazione Internazionale e Nuove Cittadinanze. La sua attività consiste principalmente nella scrittura e nella gestione di progetti europei che sperimentano l’implementazione di approcci innovativi alla salute, all'assistenza e all'inclusione sociale degli anziani.

Profilo Autore

Dott.ssa Stefania Macchione, psicologa clinica specializzata in Psicologia dell’Invecchiamento e della Longevità e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale in formazione. Dopo due anni di esperienza nel campo della ricerca neuroscientifica in Italia e all’estero, e un lavoro come psicologa in struttura per anziani, dal 2018 lavora presso il centro specialistico per le demenze ISRAA- Treviso (Istituto per Servizi di Ricovero e Assistenza agli Anziani) e presso FABER-Fabbrica Europa (ISRAA) nell’ambito della progettazione europea e interventi di comunità legati all’invecchiamento. La sua attività consiste nella scrittura, implementazione e gestione di progetti legati all’isolamento sociale di persone anziane over 65 e all’autogestione della propria salute in ottica preventiva in persone over 50. La sua attività di formazione rivolta a professionisti, volontari e cittadini, si basa sulle tecniche di coinvolgimento della comunità, politiche comunitarie e aspetti motivazionali e di coaching sull’adozione di stili di vita salutari. In ambito clinico si occupa di supporto psicologico a persone anziane con demenza e relativi caregivers a domicilio nella città di Treviso e provincia.

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