Sulla Leadership: gli errori di Julio Velasco
Ho assistito, ai tempi ove militavo nel middle management, a una conferenza di Julio Velasco, apprezzandone modi e contenuti. Mi sono poi rivisto, su Youtube, tutte le versioni della “Cultura degli alibi”, un cult che suggerisco per costruire l’orientamento all’eccellenza.
Quando guardo un video dell’allenatore che ci ha fatto vincere un mondiale, la mia aspettativa è altissima; in particolare una conferenza sulla Leadership mi ha stimolato alcune riflessioni sui vantaggi e sui problemi connessi all’attuale civiltà del Business che verrà definita dagli storici “periodo di youtube”.
Sfidando i contenuti troviamo affermazioni verosimili, storie evocative, vita vissuta e opinioni fortemente discutibili.
Un messaggio per leader e manager
Il video di Youtube riprende l’allenatore argentino che si rivolge a una platea di capi. Il contesto è la formazione sulla Leadership, probabilmente durante una convention riservata a manager.
Velasco chiarisce nell’introduzione la tipologia della platea:
“Tra di voi ci sono Leader e Manager”.
Non viene chiarita la differenza tra i due termini, sui quali c’è molto dibattito.
In un testo estremamente accreditato[1] si afferma: “Il manager non sarebbe che un affidabile sgobbone, mentre il leader è il dirigente raffinato, che guarda all’orizzonte, che escogita strategie… la differenza tra un manager e un leader è molto più profonda di quanto si pensi. L’azienda che sottovaluta queste differenza avrà a soffrirne pesantemente…”[2]
Sembra poco preciso suggerire i medesimi comportamenti a un Leader, inteso come guida carismatica, come a un Manager, inteso come persona incaricata di gestire un reparto produttivo.
Il primo consiglio: “essere se stessi”
Sincerità e onestà intellettuale sono raccomandate anche ai venditori, in quanto è facile capire quando una persona recita. Sicuramente meglio essere se stessi, soprattutto se si deve affrontare un lungo campionato.
Mi chiedo però come giudicare un allenatore che perde la pazienza di fronte all’errore di un giocatore. Può essere naturale dare in escandescenze agitando le braccia in segno di disapprovazione. Essere se stessi può essere, però, l’alibi per quei manager che rifiutano di transitare da comportamenti reattivi/istintivi a comportamenti proattivi.
La proattività, attitudine fondamentale per “fare accadere le cose”, si basa su schemi cognitivo-comportamentali evoluti, anti-istintivi. Le soft skills manageriali vanno apprese faticosamente.
Dunque, il primo messaggio può generare interpretazioni pesantemente fuorvianti.
Il secondo consiglio: “essere autorevoli”
“Se un manager che si occupa di vestiti viene incaricato di occuparsi di pasta, deve colmare la lacuna studiando la pasta…”
Questa raccomandazione, apparentemente di buon senso, deriva da un errore comune, che porta a gravi e diffuse conseguenze.
Prima di tutto se la mia provenienza è il settore dell’abbigliamento e vengo incaricato di gestire un’azienda di pasta, per quanto io possa studiare, NON sarò mai così competente come i tecnici che dovrò coordinare.
Quando ricevo un incarico la mia leadership verrà pesata nelle prime ore[3], ed è dunque impensabile raggiungere un’apprezzabile competenza prima di confrontarsi con il team.
L’autorevolezza non è minacciata dall’incompetenza tecnica, soprattutto se dichiarata con onestà.
Ci sono alcuni autori che sostengono che un coach senza competenza tecnica è più efficace di uno competente[4].
Ciò che farà la differenza saranno le competenze consulenziali, l’attitudine al coaching, la percezione individualizzata sui collaboratori, il problem solving[5].
Molti imprenditori possono testimoniare che un bravo capo può coordinare reparti senza avere la knowledge tecnica specifica e che viceversa una persona senza attitudini al coordinamento, anche se tecnicamente preparata, non deve essere posta in una posizione di comando.
Non crediamo che Velasco abbia accettato di diventare Direttore Sportivo della Lazio pensando di diventare un luminare del calcio.
Peraltro sta già avvenendo che i selezionatori del personale sopravvalutino la provenienza dal settore, soprattutto nella scelta di rinforzi per il Middle Management. Bisogna entrare nell’etereo mondo degli Executive per svincolarsi dalle competenze merceologiche…
Tutto ciò è vero se distinguiamo il manager dal supertecnico che invade l’orto dei propri collaboratori.
Al bar sport vengono osannati allenatori che, in piedi a bordo del campo, suggeriscono il passaggio al giocatore che sta gestendo la palla… John Wooden, considerato l’allenatore più vincente della storia del Basket universitario, diceva: “Mi piace guardare la partita dagli spalti per vedere se durante la settimana ho fatto un buon lavoro…”
Il terzo consiglio: “essere giusto”
Un team rispetterà maggiormente un capo equilibrato e giusto rispetto ad un capo psicopatico e capriccioso, ma il suggerimento di Velasco di trattare tutti allo stesso modo lascia perplessi. Prima di tutto è poco realistico ricordare come ci siamo comportati nel passato.
Secondariamente è impossibile, anche nelle imprese no profit, puntare all’equità e alla giustizia, nonostante tutti i tentativi di misurare le prestazioni.
È veramente ingenuo sperare che i collaboratori percepiscano di essere trattati in modo oggettivo.
Tra l’altro, anche in ambito sportivo, l’allenatore che impone regole uguali per tutti (magari senza il carisma di Velasco) perde sempre la collaborazione del fuoriclasse poco disciplinato, magari in fase calante, che potrebbe fare la differenza nei momenti critici. Per mantenere la disciplina molti campioni finiscono in panchina, molte partite vengono perse, molti soldi vanno in fumo.
Il quarto consiglio: “combinare la grande esigenza (controllo/pretendere), aiutare nei problemi”
Il quinto consiglio: “creare situazioni di affettività, compatibili con l’esigenza della performance, mantenendo un bilanciamento”
Velasco tratta insieme questi due punti che contengono importanti suggerimenti, soprattutto l’idea che la persona viene prima del professionista, per cui la relazione con i collaboratori è alla base della prestazione della squadra.
Dunque, tra le parole chiave portiamo a casa l’importanza di personalizzare la relazione, preoccuparsi/occuparsi anche ove non si abbia la possibilità di offrire quello che serve.
Allo stesso modo Velasco suggerisce di aiutare, ovvero di creare il contesto ove la persona stia bene, cosicché possa esprimersi al meglio.
La perplessità qui nasce dal come viene proposto un modello per la gestione del personale ove tutti devono essere premiati quando la squadra raggiunge un obiettivo, ciò che stimola sia il senso di appartenenza sia i comportamenti collaborativi.
Per convincere i partecipanti si sostiene che tale pratica “sia stata adottata dal Milan e dall’Inter e che in futuro sarà adottata da tutte le grandi squadre”.
Le fonti del pensiero manageriale sono troppo spesso basate sui casi di successo, evitando accuratamente di citare i casi ove la medesima ricetta non ha funzionato.
Fino a che non si vedranno studi sistematici (i cui risultati vanno comunque presi con le pinze[6]…) certe verità rimarranno sempre opinioni, soprattutto quando fonti accreditate riportano conclusioni differenti; non c’è infatti accordo in letteratura, anche tra gli addestratori di cani, sulla relazione tra premi e motivazione…
L’errore di metodo: porsi come fonte di sapere sulla base dell’esperienza
Come abbiamo visto, Velasco offre suggerimenti verosimili e stimolanti, anche perché offerti in modo chiaro e coinvolgente. Tra i “guru” in circolazione merita stima e rispetto.
Dove sta il punto debole?
Quando un personaggio pubblico, a seguito di successi dovuti alla professionalità e all’orientamento all’eccellenza, viene installato sul piedistallo del “guru”, comincia a emettere verità che vengono spruzzate nelle organizzazioni sperando che, per osmosi, le competenze vincenti si trasferiscano.
Carlo Magno dormiva con un libro sotto il cuscino sperando di acquisire la cultura che tanto gli mancava. Sembra che, nella storia, le superstizioni si ripropongono.
Siccome i guru sono numerosi come le onde del mare, l’effetto sulle platee è sempre sopravvalutato; in altre parole, a valle della convention, i manager e i leader tornano al loro computer per dedicarsi alle usate cure senza cambiare di una virgola le abitudini, buone o cattive…
Purtroppo, nella generale involuzione della cultura manageriale, le comete dei guru, piuttosto che stimolare le persone ad approfondire, alimentano il generale scetticismo, che si esprime in frasi come “E’ vero tutto e il contrario di tutto…”. Alla fine il progresso della business community invece che fondate competenze acquisisce nuovi rituali, a partire dalla riunione annuale con guru e buffet a seguire.
Le verità dei guru: prendiamole con le pinze
Leggiamo nell’introduzione al libro “Primo: rompere le regole” una frase che consegna tale testo alla storia della letteratura manageriale, come attestato dalla HBSR.
“Durante gli ultimi venticinque anni, la Gallup ha condotto, registrato, e trascritto interviste di un’ora e mezzo ciascuna con oltre 80.000 manager [grassetto mio…] che meglio riuscivano a trasformare in effettiva produttività il talento dei loro dipendenti, perché volevamo capire, al di là delle ovvie differenze di stile, se avessero qualcosa in comune e in cosa consistesse questo qualcosa”[7].
Non vogliamo mettere a rischio la reputazione scommettendo sulla validità della ricerca Gallup, che sicuramente presenta punti deboli nella metodologia, e ci auguriamo che future ricerche porteranno a risultati diversi. Il sugo è però che, come in medicina non si producono verità a partire da singole esperienze, anche nelle conoscenze gestionali ci sono vari livelli di autorevolezza e il guru, per quanto vincente, deve appoggiarsi su fonti autorevoli.
È improbabile che, dopo l’era di Youtube, inizierà l’era del “Management Evidence Based”. Probabilmente non ci sarà mai un manuale che classificherà le conoscenze disponibili secondo il grado di scientificità, per cui chi è interessato a procurarsi buone informazioni, per evitare sirene e falsi profeti, deve dotarsi di una bussola.
Concludendo: come procurarsi buone informazioni?
Ascoltando i Guru è utile tenere presente che, se esistesse una ricetta per il successo, sarebbe già stata trovata e scritta dalle generazioni passate, che invece hanno prodotto un’enorme mole di informazioni sull’origine dei disastri derivanti da errori dei capi.
Da Omero a Sheakspeare, da Fedro a Lafontaine passando da Melville, possiamo ricavare indicazioni chiare sui deficit ricorrenti di coloro che si trovano in mano il bastone del comando.
Recentemente alcune organizzazioni, come le Università o altri istituti di ricerca, hanno cominciato a investigare con metodi più o meno scientifici la Leadership, spesso scoprendo verità già note agli antichi.
Chi si vuole misurare con questioni antiche quanto sfidanti deve valutare contenuti e fonti, poiché – come insegnavano Platone e Aristotele – le opinioni passano, i problemi restano.
Note:
[1] Buckingam e Coffman, Primo: rompere le regole, Baldini & Castoldi.
[2] Buskingham e Coffman, cit., pag. 76.
[3] A. Kakabadse, Leading the Board: The Six Disciplines of World Class Chairmen, Palgrave Macmillan, 2008.
[4] John Withmore, Coaching, Sperling & Kupfer Editore, 2003: cita un esperimento ove coach sciatori risultavano più efficaci con atleti tennisti rispetto a coach tennisti.
[6] Gerd Gigerenzer, Quando i numeri ingannano. Imparare a vivere con l’incertezza, Raffaello Cortina, 2003.
[7] Buckingham e Coffman, Primo: rompere le regole, cit., pag 14.
Articolo a cura di Luigi Rigolio
Docente di Marketing Sanitario presso l'Università dell'Insubria.