Sulle qualità interiori del capo ai tempi del lavoro agile
“Il capo veniva scelto per le sue qualità interiori, e perciò i popoli più fiorenti erano quelli in cui solo il migliore poteva essere il più potente: poiché può fare con sicurezza quello che vuole solo l’uomo che ritiene di potere unicamente quello che deve”.
Lucio Annéo Seneca (Epistulae morales ad Lucilium, Paragrafo 90, Libro 14)
“La domanda nasce spontanea…” era l’annuncio con cui un noto giornalista televisivo, conduttore di un programma di servizio pubblico di successo, anticipava l’interrogativo che sarebbe stato l’argomento trattato nel corso della puntata. In questo caso l’interrogativo sarebbe stato: “Cosa c’entra Seneca con il tema della leadership?”.
Ebbene, è di tutta evidenza come l’eclettico Seneca, più noto come tutore e precettore del futuro imperatore Nerone che per la sua ampia produzione letteraria e filosofica, già nel IV secolo A.C. avesse bene in mente quale dovesse essere la figura del manager (il capo) tanto da indicarne i requisiti di base definendone il ruolo. Il frammento che si considera, infatti, riconosce indispensabile, per l’esercizio del ruolo di “capo” (il manager appunto), il possesso di quelle “qualità interiori” che lo qualifichino “melior”, che alla lettera va tradotto: “il più buono”, utilizzando scientemente la forma grammaticale del comparativo assoluto.
Come non dare ragione al nostro pensatore!
Infatti, se è vero che un’organizzazione è un insieme di persone chiamate ad assolvere attività lavorative diverse, finalizzate a un obiettivo comune, non ci si può astenere dal considerare che quanto maggiore sia la competenza delle persone preposte ai differenti ruoli, tanto più positivi saranno i risultati conseguiti dalla organizzazione. E ciò vieppiù se la persona da porre al giusto posto sia quella alla quale è demandato il compito di condurre l’organizzazione attraverso la relazione con le persone al lavoro, relazione che si sostanzia nel processo di leadership in grado di generare “una visione per poterla poi realizzare nella realtà e sostenerla”[1].
Dunque, se si vuole un “capo”, occorrerà guardare a una persona con “qualità” tali da renderlo il “migliore”.
A questo punto, “la domanda nasce spontanea… quali saranno le qualità del manager chiamato a gestire lo smart working?”
Con un precedente intervento, relativo al “lavoro agile”, ospitato da questa Rivista a marzo 2019, si è data evidenza di come questa modalità risulti particolarmente atta a rendere operativa la “conciliazione lavoro-vita privata”, a condizione di essere gestita “attraverso gli interventi di leader agili, il compito dei quali va ricondotto a regole e obiettivi di lavoro, lontani da un approccio comando-controllo”[2]. Da qui la scelta di tornare sui caratteri propri della leadership, che abbiamo definito “agile” in corrispondenza del “lavoro agile”, nel momento in cui il Paese è stato quasi costretto ad avviare l’atteso processo di flessibilità di molte posizioni lavorative sotto la pressione degli interventi disposti dal Governo nazionale per scongiurare la pandemia da COVID-19.
Partendo proprio da Seneca, che declina gli attributi propri del “capo” in “fare con sicurezza quello che vuole” per avere “potere” di realizzare quello che si “deve”, utilizzando una semantica più modernista, potremo asserire che la leadership “agile” deve consistere nella consapevolezza (sicurezza) del ruolo che consente al leader (capo) di definire la strategia (potere) che fa conseguire gli obiettivi (dovere) dell’organizzazione.
La consapevolezza in questione è direttamente proporzionale al fatto che, se il “lavoro agile” si sostanzia come processo di cambiamento, anche l’organizzazione dovrà essere in grado di vivere e di comunicare costantemente senso e valori delle nuove modalità di collaborazione alle persone al lavoro, per riconfermare giorno dopo giorno il valore del “patto” per un lavoro più libero e responsabile.
Ecco allora che dal “capo” chiamato a gestire lo smart working ci si attende l’attitudine a utilizzare un modello gestionale basato su feedback sia di miglioramento che di riconoscimento delle performance; e ciò, soprattutto, poiché chiamato a sostenere i comportamenti del proprio gruppo dando ampio spazio all’affermazione di una cultura basata sulla fiducia verso quanti in esso operino.
Per pervenire alla “conciliazione”, inoltre, il manager ha necessità di operare in maniera chiara e priva di ambiguità dimostrando di essere capace di dar vita a un risultato collettivo più ampio di quello della somma degli apporti individuali, empowerment orientato in cui, cioè, l’azione del “capo” si concretizzi in attenzione, connessione, integrazione e focalizzazione[3] per fare in modo che il “lavoro agile” sia inteso come una straordinaria opportunità di flessibilità con riguardo (anche) all’attività professionale.
Se risponde a verità che l’attività produttiva umana può essere letta in relazione a tre “leve” – ciò che si ama fare, ciò che si sa fare davvero bene e ciò per cui si viene pagati[4] -, la sovrapposizione tra i tre insiemi fa sì che la “conciliazione” del lavoro con la vita privata debba puntare ad accordare il più possibile passione, competenza e retribuzione economica. Un tale risultato potrà concretizzarsi allorché l’individuo che svolga “lavoro agile” trovi autonomamente il modo più adeguato per portarlo a termine gestendo la propria attività a partire da un orientamento condiviso. Questo altro non è che il lavoro per obiettivi, descritto da Drucker fra gli anni ’50 e ’60 del Novecento, che trova fondamento in un’organica progettazione, da parte del manager, che tenga conto delle finalità dell’organizzazione, comunicata con chiarezza tutti i livelli organizzativi così da permettere a ogni persona al lavoro di “com-prendere” la strategia e gli obiettivi previsti (farli propri in condivisione con il management) e adeguare a essi autonome e più rispondenti modalità di esecuzione delle attività[5].
Come evidenziato nel citato intervento dello scorso anno[6], quindi, c’è bisogno che il manager del “lavoro agile” manifesti disponibilità ad assicurare ampio spazio alla formazione, che rappresenta l’occasione per diffondere/ampliare, da un lato, il valore di non resistere alla novità, dall’altro, l’efficiente utilizzazione delle nuove tecnologie (irrinunciabile strumento per un cambio di passo organizzativo) e, infine, ma non come ultima qualità, denoti consapevole inclinazione verso l’accrescimento e l’accelerazione del processo di revisione dei concetti di tempo e di spazio, che il “lavoro agile” rende desueti; quanto a quest’ultimo vale la pena di rimandare allo “action office” che nella sua ricerca Propst delinea come ambiente lavorativo pensato per facilitare lo sviluppo di pensieri e di azioni i tratti del quale sono stati meglio messi a fuoco da Brand, che approfondendo la relazione fra persone, contesti abitativi e collaborativi e relativi strumenti[7], auspica che il “capo” che a noi interessa possegga l’ulteriore qualità di sapere sostenere azioni fondate sulla fiducia piuttosto che sui “controlli”.
Note
[1] Kotter J.P., Il fattore leadership, Sperling & Kupfer, Milano, 1989.
[2] De Giosa V., Di Sabato T., Smart Working: verso una leadership agile, Leadership & Management Magazine, 8 marzo 2019.
[3] Laddove attenzione significa essere aperti nel cogliere tutti i segnali provenienti da sé stessi e dall’ambiente; connessione sostanzia l’attività con cui vengono privilegiati i rapporti empatici; integrazione costituisce la necessita di utilizzare tutte le risorse fisiche, cognitive ed emozionali in rapporto al compito e alle relazioni; focalizzazione esprime l’essere saldamente ancorati agli obiettivi senza perdere di vista i traguardi. Cfr. Bochicchio F., Di Sabato T., Apprendimento e cambiamento nelle organizzazioni, Libellula, Tricase, 2018.
[4] Collins J., Good to Great, Vintage Publishing, 2001.
[5] Drucker P. F., Le sfide di management del XXI secolo, Franco Angeli, Milano, 2016.
[6] Ibidem.
[7] Brand S., How Buildings Learn: What Happens After They’re Built, Penguin, New York, 1994.
Articolo a cura di Tommaso Di Sabato
Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.