Tecnologie e processi di cura mediati dal potenziale innovativo dei leaders

Si assiste oggi ad una crescita esponenziale dell’adozione della tecnologia nei processi di cura e presa in carico a distanza, dove screening, self-tracking e monitoraggio da remoto appaiono i cardini su cui si imperniano le architetture della tele-medicina connessa all’home care.

Tale introduzione porta con sé indubbi vantaggi: consente di alleggerire il carico che grava sui servizi – sia in termini economici che dal punto di vista dell’organizzazione delle risorse umane – specialmente per ciò che pertiene visite ambulatoriali e follow-up; permette di raccogliere in modo puntuale e preciso i valori dei parametri vitali significativi nel quadro clinico del paziente; stimola, mediante l’invito all’auto-monitoraggio, forme di empowerment e presa di consapevolezza circa salute e benessere individuali; favorisce la compliance terapeutica tramite notifiche e reminder; ancora, tali sistemi rendono percorribili azioni di comunicazione e monitoraggio continui fondamentali per caregivers formali e informali, nonché utili nel restituire al paziente il senso di sicurezza che spesso ricerca.

Alcune variabili che il leader deve considerare

Per un leader che si appresti ad acquisire e porre a sistema tali tecnologie, è tuttavia fondamentale tenere presente come un simile approccio porti con sé alcuni cambiamenti nel paradigma di cura e presa in carico che ci è stato finora familiare.

Anzitutto, il venir meno del setting terapeutico consueto, cui appartengono tanto i “luoghi” della clinica – le stanze, gli strumenti dell’ambulatorio – quanto le “pratiche” che in essi vivono – il dialogo con il medico, le contrattazioni e le narrazioni di malattia e della salute che qui trovano spazio, i gesti e gli attrezzi che adopera sul corpo. Ancora, quella che si può riassumere come parziale sostituzione dell’umano con la macchina nel raccogliere e scrutinare i segni del corpo- la pressione, la glicemia, il battito cardiaco. Significativo in questa prospettiva è proprio l’atto del self-tracking, che domanda di fatto al paziente di sostituirsi al professionista nella lettura del corpo, azione chiave della cura e della presa in carico durante la quale il curato si affida al curante. Sebbene sfigmomanometri, glucometri e altri strumenti di misurazione siano già da tempo entrati nella quotidianità dei cittadini, a mutare è il quadro generale in cui l’automonitoraggio si colloca ora: la rilevazione autonoma non è più solo un’azione che fa da corollario a quella del professionista, ma costituisce al contrario un elemento necessario affinché questi possa svolgere il proprio lavoro di diagnosi e controllo. A tal proposito, non va sottovalutato il possibile scarto tra l’utilizzo prescrittivo della tecnologia, ossia come ci si attende che venga adoperata affinché funzioni correttamente, e la sua immissione nella quotidianità del paziente, vale a dire l’“uso reale” che egli ne fa, con le conseguenti ripercussioni sull’efficacia terapeutica. Se la questione della compliance non è nuova al mondo clinico, essa assume in questo quadro sfumature inedite chiamando in causa le rappresentazioni che il soggetto possiede della tecnologia, le quali possono facilitarne o inibirne l’introduzione nella domesticità, o ancora minarne l’efficacia. Non deve infine venir trascurato quanto l’apprendimento dell’utilizzo dei devices tecnologici possa richiedere al paziente (ma anche al caregiver) uno sforzo significativo, soprattutto quando adoperato tra la popolazione più anziana o in persone con disabilità cognitive o fisiche, e come siano talvolta proprio alcune caratteristiche fisiche – ipovisione, mancanza del movimento fine – a inficiarne l’adozione e segnare la conseguente scarsa aderenza.

L’importanza dell’azione di accompagnamento del leader

Al fine di veicolare con efficacia tali innovazioni, è fondamentale che il leader predisponga un processo di accompagnamento al cambiamento, uscendo dalla comfort zone, sperimentando egli stesso l’immissione della tecnologia nei processi di cura e assistenza, ma soprattutto avendo l’abilità di trasmettere tale approccio ai lavoratori e alle persone con cui questi entrano in contatto, ovvero gli assistiti. Come afferma Withmore, la comfort zone fa sentire al sicuro ma anche annoiati, senza nuovi propositi, conducendo alla routine. Sperimentare l’utilizzo delle tecnologie negli iter terapeutici e di sostegno, vederne e accettarne positività e utilità, equivale a sperimentare e sperimentarsi, entrare in quella learning zone che espone al livello di ansia ottimale a creare i presupposti per stimolare la giusta curiosità nell’affrontare la novità. La supervisione del leader è qui fondamentale affinché non si entri nella panic zone, dove l’ansia eccessiva conduce a immobilità e rifiuto.

Come raggiungere con successo questo obiettivo? Anzitutto, è indispensabile che l’utente sia correttamente informato sulle finalità di tale introduzione, e venga quindi adeguatamente formato al suo utilizzo. Tale formazione deve prevedere sia la trasmissione delle conoscenze necessarie al corretto funzionamento dei devices, sia momenti di confronto che favoriscano l’emersione delle interpretazioni che egli ha della tecnologia, dei timori, dei dubbi e delle aspettative dinnanzi una sua potenziale adozione. Ciò consentirà di agire tempestivamente su eventuali criticità, scansando il più possibile il rischio che si presentino in corso d’uso. Un approccio flessibile, che sappia coniugare il modello di utilizzo prestabilito con le abitudini, le capacità e le aspettative dell’utente, permetterà di integrare più efficientemente questi ultimi alla quotidianità.

Essenziale è inoltre predisporre momenti di scambio e ascolto tra professionista e paziente, durante i quali i dati medici raccolti possano essere oggetto di confronto, passaggi frequentemente sottostimati ma fondamentali ad aumentare le chances di successo del piano di cura e assistenza. Una tale accortezza consente inoltre di mitigare il rischio di dataficazione del paziente (ovvero un appiattimento all’aspetto meramente quantitativo della sua salute) intrinseco all’applicazione di questi modelli, restituendo valore alla dimensione qualitativa, esperienziale e contestuale che il dato trattiene. Condotte in un’ottica di adattamento e familiarizzazione tra utente e tecnologia, queste attenzioni sortiscono un effetto positivo anche sulla dimensione della fiducia, elemento fondante l’alleanza terapeutica. Se un simile processo può apparire dispendioso, soprattutto in termini di tempo, esso va in realtà nel verso opposto, ammortizzando le tempistiche dedicate alla risoluzione di problematiche e difficoltà connesse ad uno scorretto o mancato utilizzo che potrebbero verificarsi in itinere.

Hofmann afferma: “Le tecnologie non sono strumenti neutrali, esse ridefiniscono obiettivi, mediano il modo in cui il soggetto fa esperienza del mondo e il modo in cui agisce nel mondo. Questo appare chiaro quando si realizza che le tecnologie non sono solo dispositivi materiali ma sono un complesso sociotecnologico che consiste in una mutua dipendenza tra elementi materiali e umani. Esse ridefiniscono il contesto di utilizzo, gli attori, il loro ruolo e responsabilità che diventano insieme agli oggetti materiali parte delle pratiche tecnologiche” (2001).
Per tale motivo è fondamentale mantenere l’attenzione alla persona nel mediare il processo di avvicinamento all’utilizzo delle tecnologie.

Un breve sguardo sull’attualità

In questo periodo di emergenza sanitaria la questione è più attuale che mai. La tecnologia si fa elemento sostitutivo di quelle relazioni sociali, di vicinanza e affetto che un tempo si svolgevano in presenza: la videochiamata del familiare che può così vedere il proprio parente, la proposta di webinar e attività di supporto e sollievo tramite diretta facebook diventano i soli modi di vicinanza sociale e psicologica. La tecnologia diviene essa stessa supporto agli operatori e alle famiglie, un mezzo per continuare a prendersi cura e ridurre quei fenomeni sociali, come isolamento e solitudine, antecedenti a questa nuova “era emergenziale”. Il ruolo del leader deve andare nella direzione di far accettare all’intera organizzazione un sistema nuovo, evidenziandone i vantaggi e valorizzando il plus che la tecnologia può dare, non eliminando l’essere umano, ma fungendo da supporto al suo operato, un valido aiuto che aumenta la percezione di utilità della persona che la utilizza o che se ne fa portavoce e mediatore.

Conclusioni

Risulta sempre più pressante l’esigenza di predisporre modelli di cura e presa in carico capaci di fronteggiare le sfide che l’attualità ci pone, offrendo risposte innovative che non solo permettano al sistema sanitario di non soccombere al peso dell’incremento della domanda di assistenza, ma che pongano le basi per migliorare efficacia ed efficienza dei servizi offerti. In questo scenario, l’adozione della tecnologia nell’home care può giocare un ruolo centrale se pensata e messa in opera in modo duttile e non prescrittivo, e interrelata a una componente umana che scansi il rischio di un approccio riduzionista di un intervento focalizzato sulla quantificazione dell’informazione a scapito della qualità. In questo scenario, tale fattore umano non deve dunque assumere un compito meramente compensativo, riempiendo i vuoti lasciati dalla tecnologia e tamponandone le falle, ma deve essere piuttosto essere inteso come presenza interattiva e creativa, capace di amplificarne la performance al fine di raggiungere una maggiore soddisfazione e un maggior benessere dell’utente. Compito del leader è quindi adottare un approccio elastico, che sappia integrare queste due componenti, oltrepassando il presunto dualismo tra umano e tecnologico e favorendone, piuttosto, una crasi.

 

Bibliografia

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Whitmore, J. (2009), Coaching for Performance: GROWing Human Potential and Purpose – The Principles and Practice of Coaching and Leadership, 4th Edition.

 

Articolo a cura di Stefania Macchione e Adele De Stefani

Profilo Autore

Dott.ssa Stefania Macchione, psicologa clinica specializzata in Psicologia dell’Invecchiamento e della Longevità e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale in formazione. Dopo due anni di esperienza nel campo della ricerca neuroscientifica in Italia e all’estero, e un lavoro come psicologa in struttura per anziani, dal 2018 lavora presso il centro specialistico per le demenze ISRAA- Treviso (Istituto per Servizi di Ricovero e Assistenza agli Anziani) e presso FABER-Fabbrica Europa (ISRAA) nell’ambito della progettazione europea e interventi di comunità legati all’invecchiamento. La sua attività consiste nella scrittura, implementazione e gestione di progetti legati all’isolamento sociale di persone anziane over 65 e all’autogestione della propria salute in ottica preventiva in persone over 50. La sua attività di formazione rivolta a professionisti, volontari e cittadini, si basa sulle tecniche di coinvolgimento della comunità, politiche comunitarie e aspetti motivazionali e di coaching sull’adozione di stili di vita salutari. In ambito clinico si occupa di supporto psicologico a persone anziane con demenza e relativi caregivers a domicilio nella città di Treviso e provincia.

Profilo Autore

Dott.ssa Adele De Stefani, antropologa specializzata in antropologia medica e sociale. Ha conseguito un dottorato di ricerca in Studi Umanistici Interculturali e un Master in Cooperazione Internazionale e Nuove Cittadinanze. La sua attività consiste principalmente nella scrittura e nella gestione di progetti europei che sperimentano l’implementazione di approcci innovativi alla salute, all'assistenza e all'inclusione sociale degli anziani.

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