Trasformazione Digitale, Pandemia e rivoluzione dei beni immateriali

Quando, qualche tempo fa, ho scritto su queste pagine di “Trasformazione Digitale” in apertura avevo già accennato al fatto che la Trasformazione Digitale fosse innanzitutto una trasformazione economica e, come tale, comportasse “…la rinuncia alla produzione di un bene per incrementare la produzione di un altro attraverso lo spostamento a questo fine delle risorse produttive…” e di come essa consistesse prevalentemente nello spostamento dei fattori di produzione dalla produzione di beni materiali a quella di beni immateriali.

Questo anno di pandemia ha accelerato questo processo forzando la smaterializzazione/digitalizzazione di molti servizi e di molte attività lavorative. Forse questo è un momento opportuno per riflettere sulla rivoluzione dei beni immateriali partendo da qualche numero.

“Se si prendessero tutti i beni fisici di proprietà delle aziende dell’S&P 500, immobili, uffici e veicoli, fabbriche e merci nei magazzini, e si vendessero tutti al costo in un’unica vendita, genererebbero una somma netta che non raggiunge nemmeno il 20% del valore di $ 28 trilioni dell’indice S&P”, ha dichiarato Bloomberg in un articolo pubblicato il 21 ottobre 2020: “Epic S&P 500 Rally Is Powered by Assets You Can’t See or Touch”.

“L’aumento della percentuale del valore dei beni immateriali spiega, almeno in parte, i problemi occupazionali negli USA”, aggiunge l’articolo. “…Data la nuova normalità post-pandemia, possiamo aspettarci che la quota di beni immateriali aumenti, e diventi fonte di profonda preoccupazione per occupazione e disuguaglianze (per chi è occupato prevalentemente nella produzione di beni materiali ndr)”.

I beni immateriali (“intangible asset”) sono più facilmente definiti come l’opposto dei beni materiali (“tangible asset”) che sono tutto quanto, presente nei bilanci, può essere convertito in denaro: beni di natura propriamente fisica come veicoli, terreni ed edifici, impianti, attrezzature, suppellettili e merci a magazzino, ma anche attività finanziarie come azioni, obbligazioni, crediti e liquidità,.

Al contrario, i beni (o attività) immateriali non sono beni fisici né hanno un valore finanziario facilmente specificabile secondo i criteri contabili tradizionali; essi includono brevetti, diritti d’autore, marchi, avviamento dell’impresa, valore del marchio, capitale umano, attività e risultati della ricerca e sviluppo, software e dati. Pur non avendo un’esistenza fisica, i beni immateriali hanno un valore monetario in quanto rappresentano entrate potenziali, ma tale valore, a differenza dei beni materiali, è difficile da valutare almeno secondo i principi contabili tradizionali.

Secondo una ricerca condotta nel 2019 dall’Istituto Ponemon, il valore dei beni immateriali è letteralmente esploso negli ultimi decenni, proprio a causa della crescente digitalizzazione dell’economia e della trasformazione digitale. Nel 1975, il valore complessivo dell’S&P 500 era di 715 miliardi di dollari, di cui il 17% intangibile. Nel 1985, su un valore totale di 1,5 trilioni di dollari, il 32%, pari a circa un terzo, era intangibile. Nel 1995, le percentuali erano invertite, con i beni immateriali al 68% per un valore di 4,6 trilioni di dollari. I beni immateriali hanno continuato a salire all’80% di 11,6 trilioni di dollari nel 2005; e all’84% di $ 25 trilioni nel 2018.

Un’ulteriore prova della rivoluzione dei beni immateriali è che nell’economia industriale del XIX e XX secolo, le più grandi aziende per capitalizzazione erano per lo più basate sulla produzione di beni materiali: nel 1975 le cinque più grandi aziende erano IBM, Exxon Mobil, Procter & Gamble, GE e 3M. Ma già nel 2018, le cinque aziende con le maggiori capitalizzazione di mercato erano Apple, Alphabet, Microsoft, Amazon e Facebook. Le materie prime, gli impianti fisici e il magazzino pesano oggi molto meno che in passato e anche le aziende che operano nei settori industriali “fisici” e non digitali ora investono maggiormente in beni immateriali come proprietà intellettuale, software, dati, marketing e reputazione del marchio.

Il rapporto del Ponemon Institute elenca otto categorie di beni immateriali:

  • Proprietà intellettuale. Si tratta di beni (asset) immateriali basati sulla creatività, tra cui brevetti, diritti d’autore, marchi, segreti industriali e know-how;
  • Marchio. Asset basati sulla percezione dei consumatori come valore del marchio (“brand equity”) e la presenza/influenza sui social media;
  • Diritti pubblici e concessioni. Asset generalmente considerati di interesse pubblico e amministrati e dati in concessione dai governi, tra cui concessioni edilizie, disposizioni di piani regolatori, quote di importazione, diritti idrici, diritti sullo spettro elettromagnetico, di trivellazione o di sorvolo;
  • Diritti B2B. Asset derivanti da accordi tra aziende, inclusi diritti di trasmissione, diritti di marketing, accordi di franchising, accordi di licenza e sponsorizzazioni;
  • I dati. Informazioni memorizzate su sistemi informatici, codice software, basi di dati, elenchi di clienti e materiali audiovisivi;
  • Beni immateriali “hard”. Asset intangibili riportati nei bilanci, ad esempio avviamento, licenze software e domini Internet;
  • Relazioni. Asset associati al valore attribuito a relazioni con persone e aziende, come le relazioni con i clienti e le relazioni con i fornitori;
  • Diritti “non-revenue”. Attività immateriali che non influiscono direttamente sulla generazione di ricavi, ad esempio accordi di non concorrenza e accordi di moratoria (“standstill”).

La pandemia, riducendo drasticamente i contatti interpersonali e i trasferimenti di beni materiali ha ulteriormente accelerato questo processo. “La pandemia eroderà ulteriormente l’importanza dei beni materiali, accelerando al contempo la spesa per ricerca e sviluppo, software, gestione dei dati e altri beni immateriali, la cui quota di investimenti aziendali potrebbe aumentare dell’11%”, ha dichiarato Jason Thomas, di Carly le Global Research in un recente white paper: “When the Future Arrives Early”. “Gli aumenti passati della quota delle spese aziendali immateriale sono stati associati a un rallentamento dei recuperi nell’occupazione. Se tale relazione dovesse essere mantenuta, un ritorno alla piena occupazione negli Stati Uniti potrebbe essere molto più lontano della fine del 2021 o del 2022”.

L’impatto della pandemia è variato considerevolmente da un settore all’altro facendo pagare un pesante tributo alle aziende che utilizzano principalmente beni fisici e tangibili, come ristoranti, hotel, gestori di eventi dal vivo e agenzie di viaggio. Gli utili in questi settori sono diminuiti del 50% o più. Ma le aziende basate su beni immateriali sono state in grado di adattarsi sorprendentemente bene. “Nel giro di poche settimane, varie aziende di tutte le dimensioni e livelli di complessità hanno scoperto di essere in grado di soddisfare o superare i volumi aziendali pre-pandemia con i loro dipendenti che lavoravano in remoto.”

Di seguito i punti chiave del white paper di Carlyle:

  • La nuova normalità post-pandemia non sarà un semplice ritorno allo status quo. È improbabile che le condizioni future assomiglino a quelle prevalenti prima della pandemia. “Il recupero connota sì un ritorno alla normalità, ma piuttosto che un semplice e rapido ritorno alle condizioni pre-pandemia, questa ripresa sarà un processo di adattamento e reinvenzione a lungo termine.”
  • Finora, l’impatto economico della pandemia è stato differente nei diversi settori industriali. Ma entro due anni la differenza fondamentale sarà probabilmente tra le aziende all’interno dello stesso settore industriale, poiché alcune aziende cercano di spingere la trasformazione digitale più di altre, e alcuni gruppi dirigenti cercano di reinventare i loro modelli di business e strategie “mentre altri si sforzano di tornare ai livelli di gennaio 2020 con solo piccoli aggiustamenti”.
  • “Con l’accelerazione del ritmo di digitalizzazione, gli investitori dovrebbero considerare le differenze tra i modelli di business piuttosto che le differenze tra i settori… Col senno di poi, il 2020 potrebbe essere l’anno in cui la tecnologia ha smesso di essere pensata come un settore a sé stante ma più come il principale fattore di differenziazione tra tutte le aziende, indipendentemente dal settore di appartenenza. “
  • “Piuttosto che un flash momentaneo che si allontana rapidamente dalla memoria, la recessione dovuta al coronavirus avrà un impatto continuativo sulle condizioni economiche e finanziarie per qualche tempo a venire. Le recessioni spesso prendono una vita propria. Molti dirigenti aziendali utilizzeranno quello che è accaduto come un’opportunità per ripensare e re-immaginare le loro attività accelerando il ritmo della digitalizzazione e facendo sì che gli investitori ragionino più in termini di modelli di business che di settori industriali”.

Probabilmente, come al solito, le aziende che sapranno sfruttare questa crisi come un’opportunità riusciranno a trarre notevoli vantaggi, l’importante è non confondere una trasformazione con una crisi: presentano gli stessi sintomi (economici), ma da una crisi si esce tornando alla status quo, mentre una trasformazione economica è un cambiamento unidirezionale e irreversibile nell’attività economica.

 

Articolo a cura di Alvaro Busetti

Profilo Autore

Alvaro Busetti opera come consulente free-lance e formatore. La sua vita professionale si è svolta nell’ambito dell’Information Technology con particolare riguardo agli aspetti progettuali e innovativi dal punto di vista organizzativo, applicativo e tecnologico. Ha svolto attività di conduzione progetti, coordinamento di unità produttive, attività di staff e supporto a livello Aziendale, di Gruppo e attività consulenziale per il top management del Cliente nel mercato dei Trasporti, Pubblica Amministrazione, Sanità, Industria, Servizi. Si è occupato di Intelligenza Artificiale, digital workplace e Office Automation, soluzioni Intranet, Sistemi multimediali, di Unified Communication e di Social Collaboration.

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