Travel Security: la Tutela del Capitale Umano in Movimento

Secondo BDO 2014, ben otto imprese su dieci citano rischi nella gestione operativa della delocalizzazione di parte del proprio business.

La sicurezza del personale viaggiante e il «duty of care» sono infatti diventati temi centrali di ogni azienda multinazionale.

Il manager espatriato con i suoi familiari, il viaggiatore occasionale in aree ad alto rischio, lo shareholder in vacanza con necessità di evacuazione immediata per problemi medici: tutti necessitano di un adeguato servizio di travel security. La disciplina del “Duty of Care” giunge a noi dalla cultura anglosassone, da cui nasce come insieme di norme che in molti paesi regolano gli obblighi di enti, soprattutto privati, nei confronti del personale viaggiante, espatriato o trasfertista. L’Italia però non è rimasta a guardare: con il decreto legislativo n. 81 del 2008 e successive integrazioni ha introdotto molti di questi concetti che, nonostante iniziali interpretazioni ne avessero idealmente limitato l’applicazione ai rischi nel lessico inseriti all’interno del panorama safety, in realtà sono sufficientemente esplicativi del da farsi. Cerchiamo però di chiarire quali sono le motivazioni imprescindibili che hanno condotto molte aziende ad aver già investito in questa fondamentale funzione.

La prima, forse anche più intuitiva, è di natura etica e morale.

Le persone sono chiaramente il primo asset di un’azienda: dotarsi di un dispositivo di sicurezza che ne garantisca la corretta protezione, informazione e formazione relativamente ai rischi a cui possono andare in contro è il minimo che un datore di lavoro debba fare. L’attuale scenario internazionale, d’altronde, non è di aiuto e muta velocemente allargando notevolmente il perimetro delle attività di tutela a cui è necessario ricorrere per salvaguardare il personale viaggiante: piani di evacuazione rapida, soccorso medico, safe zone, protezione personale, ecc. Recentemente anche i player industriali che operano in maniera stabile in molti paesi considerati “a rischio” – ove oggi il concetto di rischio è molto più specifico e riguarda spesso solo alcune aree o addirittura quartieri di paesi in cui è invece possibile operare serenamente con le dovute precauzioni – che ritengono di essere sufficientemente ambientati e integrati, potrebbero doversi ricredere. Emblema di ciò è il caso di cronaca recente dei quattro dipendenti di una società di costruzioni italiana che opera in Libia dagli anni ’80 e conta più di 300 dipendenti nell’area nordafricana. I quattro operai sono stati rapiti nel mese di luglio 2015 a Mellitah, a 60 km da Tripoli, nelle vicinanze di un compound dell’Eni, mentre si trovavano ancora nel paese nonostante la chiusura dell’Ambasciata italiana ed il richiamo, a tutti i connazionali, di lasciare il paese. Episodi simili potrebbero rappresentare solo la punta di un grosso iceberg da evitare attraverso l’istituzione di una funzione, interna o esterna alla stessa azienda, che si occupi di una corretta e dinamica valutazione del rischio.

Corretta perché necessariamente affidata a professionisti in grado di analizzare la probabilità che la minaccia impatti sull’asset di interesse considerando, ad esempio nel caso di persone, anche i fattori culturali specifici come la nazionalità del viaggiatore a rischio in relazione al paese in cui opera.

Dinamica perché, come accennato, gli scenari potrebbero cambiare rapidamente con il variare del più apparentemente trascurabile micro equilibrio geopolitico o economico. E’ necessario un monitoraggio costante e professionale per proteggere l’inestimabile capitale umano.

La seconda, si riferisce al tema normativo.

In Italia il già citato “decreto 81” chiarisce misure e responsabilità in materia di sicurezza in capo al datore di lavoro – e non solo – indicando profili di responsabilità in ambito civile e penale. Innanzitutto stabilisce che il datore di lavoro non può delegare né la valutazione dei rischi né la conseguente elaborazione del relativo documento (DVR) ma può comunque avvalersi, secondo quanto pronunciato dalla Corte di Cassazione nel 2008, di professionalità tecniche per la stesura dello stesso. Inoltre, riferisce chiaramente che il decreto si applica “a tutte le tipologie di rischio” e che il datore di lavoro può considerarsi punibile in quanto versa in colpa quando abbia omesso di valutare un rischio ragionevolmente prevedibile ed identificabile, non informando e formando il dipendente in merito.

Un esempio banale ma attuale e concreto potrebbe essere il pericolo a cui si espone un lavoratore che si reca oggi in Brasile senza essere informato dei rischi a cui potrebbe essere esposto a causa della puntura di una zanzara e che potrebbe invece mitigare semplicemente usando un adeguato repellente per insetti. Altro emblema dell’attribuzione di responsabilità in ambito penale è dato dalla Suprema Corte con la sentenza 29 settembre 2006, che ha condannato per il reato di omicidio colposo il datore di lavoro di una Guardia Giurata uccisa durante una rapina, per non avere adottato le misure di prevenzione e di protezione a favore del dipendente e per non aver considerato il rischio rapina nel documento di valutazione. Dal momento che devono essere oggetto di valutazione anche i rischi atipici, la formazione e l’informazione devono riguardare anch’essi.

Altra nota da non sottovalutare è relativa alle modalità di formazione dei dipendenti: la redazione e la distribuzione di libretti informativi, che spesso non vengono letti, non è ritenuto uno strumento sufficiente. Occorre anzi che ci sia una verifica da parte del datore di lavoro in merito all’effettivo apprendimento delle nozioni in materia di sicurezza con dei test che potrebbero essere somministrati anche in modalità e-learning.

Oltre a evidenziare la responsabilità penale delle persone fisiche (datore di lavoro, dirigenti, responsabile del servizio di prevenzione, medico competente e così via), il D.lgs. 81/08 prevede anche un altro tipo di responsabilità, ovvero la responsabilità amministrativa degli enti, introdotta nelle leggi italiane dal D.lgs. 231/01. Le pene previste da tale norma sono particolarmente onerose dal momento che, oltre a sanzioni pecuniarie elevate, possono configurarsi anche sanzioni interdittive, che possono spingersi fino all’interdizione dell’esercizio dell’attività o il commissariamento dell’ente. L’art. 300 del D.lgs. 81/08 ha esteso la responsabilità amministrativa dell’ente alla materia della sicurezza del lavoro.

Per la prima volta nella storia del diritto italiano la responsabilità amministrativa dell’impresa sussiste anche in rapporto ai delitti di omicidio colposo o di lesione personale colposa grave o gravissima commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro.

Fondamentale è anche chiarire che, durante le trasferte, il luogo di lavoro, così come l’orario, sono difficilmente perimetrabili esclusivamente all’interno degli uffici o stabilimenti industriali in cui si opera, così come anche nelle canoniche “otto ore al giorno”. Per quest’ultimo principio la responsabilità dell’azienda si estenderebbe a tutto il periodo di viaggio, all’albergo e i luoghi fisici in cui si soggiorna e si opera aumentando esponenzialmente le vulnerabilità. Il decreto legislativo 231/01 stabilisce quindi che l’ente deve adottare e efficacemente attuare un modello di organizzazione e di gestione idoneo a evitare il verificarsi di incidenti o infortuni.

La Terza ed ultima motivazione, ma non ultima per importanza, è quella relativa alla Business Continuity.

Il vero valore aggiunto di una funzione di gestione della travel security è riferita alla capacità di mantenere la costante operativa del personale in ogni situazione o evacuarlo in maniera disallarmante – se possibile convocando improvvise riunioni in vicini paesi sicuri – per non procurare traumi e poter garantire il sereno rientro degli expat nel paese con il ripristinarsi delle condizioni di sicurezza.

A questo fine la travel policy di cui deve dotarsi un’azienda deve oggi, per considerare il divieto di viaggio esclusivamente come estrema ratio, prevedere indicazioni che educhino a quali misure attenersi durante le trasferte e durante tutti quelli che possono essere i momenti di esposizione al rischio anche al fine della corretta prosecuzione del business. Volendo esemplificare, l’analisi della minaccia odierna considera “soft target” tutte le strutture turistiche soprattutto frequentate da stranieri. Questo porta a considerazioni semplici da integrare in quella che potrebbe essere la travel policy come il non far viaggiare più di due dirigenti sullo stesso volo, evitare che alloggino nello stesso albergo, impedire che si fermino a cena insieme in paesi a rischio critico. Insomma, tutte misure che i colossi dell’impresa italiana applicavano regolarmente nei tragici anni di piombo.

E’ oggi anche fondamentale che i manager chiamati a gestire le risorse umane preparino solidi ed efficaci piani di successione e sostituzione soprattutto per i dirigenti impiegati in high risk zones. L’ultimo tema è relativo alla sicurezza delle informazioni. Spostando o evacuando il personale è importante accertarsi che computer, supporti, documenti e altri contenitori di know how, vengano messi in sicurezza, trasportati unitamente alle persone o, in casi critici, distrutti, certi di un efficace backup che consenta di riprendere il lavoro da dove interrotto.

Concludendo, possiamo affermare che la travel security, come tutte le declinazioni della materia sicurezza, è fondamentalmente un tema di cultura ma tra i più delicati perché vede al centro di tutto le persone e non gli asset fisici.

Oggi la sfida per le imprese, e soprattutto per chi ha il compito di definire le politiche di gestione delle risorse umane, è di riuscire ad inserire nelle norme e consuetudini aziendali tutto quanto necessario per garantire la sicurezza ma soprattutto il clima di serenità, risultato di una corretta cultura di convivenza quotidiana coi rischi, necessario allo svolgimento di funzioni complesse in aree difficili.

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