Un modo rivoluzionario di approcciare la leadership

Chiunque approcci lo studio della leadership, spesso si trova davanti a una apparentemente insormontabile difficoltà: un’infinità di teorie o formule che rivendicano, ciascuna, l’assolutezza della propria verità sulle altre. Una mole spropositata di informazioni, tra loro spesso contraddittorie, da cui deriva un’abnorme produzione di manuali, libri, riviste, scuole, corsi, metodologie dove è complicato, se non a volte impossibile, orientarsi. Quale percorso scegliere, tra i tanti proposti?

Troveremo qualche indizio nelle risposte che nel tempo sono state date a questa domanda: Cosa è che determina in una persona, la capacità di influenzare i membri del suo gruppo al punto tale, che questi ne sposano la visione e volontariamente si fanno oggetto e strumento della sua azione?

La prima risposta e probabilmente la più consolidata nell’immaginario collettivo delle persone, è che l’influenza di un leader dipenda, dai tratti della sua personalità. Lo storico Thomas Carlyle, nel 1841, con la sua teoria del “grande uomo” riduceva la grandezza di una leadership tutta in termini di caratteristiche umane. Più in generale, i leader riescono in quello che fanno perché sono: intelligenti, visionari, coraggiosi, imperturbabili, autorevoli, abili, tenaci, caparbi, geniali, sinceri, lungimiranti e chi più ne ha più ne metta. Nella forma più radicale, vengono considerati una sorta di predestinati. Affascinante e comodo per alcuni pensarlo, ma nella realtà dei fatti questa spiegazione crea più problemi di quanti ne chiarisca. In primis, come oramai dimostrato da molti studi, la leadership non si possiede; è piuttosto l’esito di un processo, qualcosa che si costruisce nella relazione con il gruppo. Il che ci porta a cercare altrove le nostre risposte.

Un secondo punto di vista, pur riconoscendo l’importanza delle caratteristiche del leader, identifica come rilevante la variabile situazionale o contingente, come fa Fred Edward Fielder (1967) con la sua Teoria della Contingenza. A differenza del primo approccio, questo secondo ritiene che non tutti i leader siano adatti a gestire con successo tutte le situazioni. Le predisposizioni interiori (es. orientamento al compito, piuttosto che alle relazioni – si vedano gli studi evidenziati al riguardo da Robert Freed Bales, 1950) si traducono in un’azione vincente, quando le situazioni in cui essa opera sono congeniali a queste stesse. Cosicché per essere un leader influente e di successo, si deve tenere conto delle caratteristiche del contesto in cui lo stesso opera: situazioni diverse, difatti, richiedono leader differenti. Il problema, tuttavia, è che queste conclusioni implicherebbero, ogni volta, la scelta del leader più adatto sulla scia di un algoritmo; inoltre minano alla base la validità di aspetti come la resilienza, uno dei primi requisiti richiesti ai leader che operano, oggigiorno, all’interno delle organizzazioni.

Una terza risposta guarda invece a un aspetto, se vogliamo, più utilitaristico. La leadership, nel modello Transazionale di Hollander (1958), ripreso poi da Bernard Bass (1990), ha successo quando è in grado di massimizzare i benefici reciproci tra membro del gruppo e leader, ad esempio attraverso incentivi economici, premi, oppure evitandogli punizioni. Più il leader permette ai membri del suo gruppo di raggiungere i propri obiettivi, più questi conferiscono alla sua leadership prestigio. Ci sono tuttavia innumerevoli esempi di leadership che contraddicono questo paradigma. Ad esempio, un soldato che combattendo accetta il sacrificio della propria vita, quali benefici ne ricaverebbe seguendo i suoi leader?

Proviamo allora una quarta via. Ciò che rende un leader influente è senz’altro il suo carisma, sulla scia delle considerazioni introdotte sul tema dal sociologo Max Weber. Riattualizzato nel modo di intendere la leadership, il successo dei leader dipenderebbe dalla capacità, abilità, che questi hanno di trasformare motivazione e comportamenti dei propri collaboratori, grazie al proprio carisma – si vedano i lavori di James MacGregor Burns (1978) e la teoria della leadership Trasformazionale, ripresa e approfondita da Bernard Bass (Bass & Avolio, 1993) –. Le persone, in sostanza, vengono ingaggiate e ispirate a perseguire interessi comunitari, piuttosto che personali in virtù del fascino che il leader, con il suo esempio, esercita. Il problema sorge nel momento in cui si cerca di definire cosa si intende con la parola carisma. Quando si tenta questo esercizio, ci si ritrova con una descrizione dei tratti che ci riporta alla definizione di leader stesso, in una sorta di loop senza soluzione.

In questi due ultimi modelli, tuttavia, pur con sostanziali differenze, la leadership è descritta non più come una caratteristica propria della persona o qualcosa che dipende in toto da essa, ma come qualcosa che si costruisce nella relazione tra questa e i membri del suo gruppo.

Questo tema, in effetti, viene ripreso e ampliato nella Teoria della Categorizzazione della leadership di Lord, R. G., Foti, R. J., & De Vader, C. L. (1984). Di estrazione prettamente cognitiva, questa teoria poggia sull’assunto che la percezione di ciascun membro del gruppo è organizzata intorno a degli stereotipi di leadership. Le aspettative che queste strutture del pensiero umano generano, disciplinano come il proprio leader dovrebbe agire o comportarsi nelle diverse situazioni in cui esplica la sua funzione. Dalla più o meno aderenza tra aspettative e comportamenti, chi guida il gruppo appare agli occhi delle singole persone un vero leader o uno che non lo sarà mai. Questa teoria, contrariamente alle altre, sposta, dunque, il baricentro sui membri del gruppo. Le caratteristiche che rendono una persona adatta a ricoprire quel ruolo, dipendono soprattutto da che cosa significa per i singoli membri, essere un leader. Il problema, tuttavia, è questo sbilanciamento verso l’importanza che nel modello riveste il singolo ancora a discapito del gruppo come sistema-insieme.

Riguardo quest’ultimo, sta raccogliendo, da qualche anno, importanti conferme un approccio (Haslam, Reicher e Platow, 2013) che integra molti degli aspetti evidenziati in precedenza, rivoluzionando il punto di vista da adottare. Si tratta di conoscenze derivate da due importantissime teorie psicosociali, la Teoria dell’identità sociale (Tajfel e Turner, 1979; 1986) e la Teoria della categorizzazione del sé (Turner 1985; Turner et al., 1987).

La nostra esistenza è gruppale; si snoda attraverso i gruppi di cui facciamo parte (famiglia, nazione, gruppo dei pari, gruppo religioso, l’organizzazione per cui lavoriamo, amici, partiti politici, etc., etc.). Quando ci identifichiamo con un particolare gruppo sociale, tendiamo a descriverci con i tratti caratterizzanti quel gruppo (es. sono uno sportivo, quindi una persona dinamica, disciplinata, salutista, etc.) e questo è uno dei motivi per cui l’appartenenza a queste entità sociali, è un elemento consustanziale del nostro essere uomini o donne all’interno della cornice socioculturale in cui viviamo. I gruppi ci aiutano, in sostanza, a chiarirci che cosa siamo, i ruoli che ricopriamo, gli scopi, le conoscenze utili a raggiungerli, gli atteggiamenti e le norme da adottare. Tutti elementi identitari che ci permettono di informarci e distinguerci “dagli” o renderci riconoscibili “agli” altri. I gruppi, dunque, non sono solo aggregati di persone. Ma insiemi di persone che condividono conoscenze, pratiche, norme, ruoli, valori, ideali, scopi. Questa identità sociale condivisa, quando intimamente introiettata nei membri, condiziona profondamente come le persone pensano, parlano, agiscono.

Partendo dall’insieme di questi presupposti, il grado di influenza che, all’interno di un gruppo, ciascun membro esercita sugli altri, dipende dal grado di fedeltà a questa identità sociale condivisa. In poche parole, più un membro è in grado di incarnarne l’essenza più questo sarà influente sui pensieri e sui comportamenti di tutti gli altri membri e diverrà per ognuno di questi, esemplare.

La persona assurge al ruolo di prototipo del gruppo, quello che al meglio ne rappresenta i valori, quello che più degli altri lotta per raggiungerne gli scopi, quello che al meglio ne tutela gli interessi e quindi nel fare questo, agli occhi degli altri, diventa la persona più indicata per guidarlo, quello da rispettare, ascoltare, seguire, imitare e quello su cui, come confermato da molti studi, si polarizza l’attenzione del gruppo. È questo meccanismo che fa sì che i membri si conformino e offrano spontaneamente il loro consenso. Da ciò deriva il suo status, il suo prestigio e soprattutto il suo carisma, che non è una caratteristica della persona quanto una conseguenza di questo processo.

Ciò non significa che le caratteristiche personali del leader siano irrilevanti. La sua credibilità, sincerità, la coerenza, la sua forza d’animo, l’empatia, la lungimiranza, il modo in cui si rapporta agli altri e via dicendo, svolgono un ruolo importantissimo ma nella misura in cui permettono a questa persona di incarnare al meglio gli scopi e i valori del suo gruppo. Né dobbiamo fare l’errore di credere che tutto questo processo si svolga in modo passivo e che il leader lo subisca. Al contrario il leader può, operando a livello identitario, lavorare su quel materiale per guidarne, indirizzarne la riuscita. In realtà, non solo egli può farlo, ma ne ha addirittura l’obbligo. Anzi, potremmo dire che buona parte del percorso che porta alla costruzione e al consolidamento della sua leadership, si realizza tutto lì.

La leadership, dunque, è un prodotto dei gruppi e per comprendere come realizzarla, bisogna partire proprio dalle qualità di questi ultimi. La regola è quella del “noi ad ogni costo”, dove il potere di un leader, paradossalmente, cresce esponenzialmente alla sua sempre maggiore capacità di liberarsi del proprio “io”.

 

Testo di riferimento:

Haslam A. S. (2016). Psicologia delle organizzazioni. Cap. sulla “Leadership”. APOGEO.

 

Articolo a cura di Romina Mandolini

Profilo Autore

Romina Mandolini Classe 1971, certificata Project Management Professional presso il Project Management Institute (PMI), la più importante associazione internazionale di Project Management. Lavora presso un’importante azienda di Telecomunicazioni italiana dove ha ricoperto diversi ruoli e maturato un’importante esperienza in termini di partecipazione e guida di progetti e gruppi di lavoro. Laureata in “Comunicazione, Media e Pubblicità” continua i suoi studi di indirizzo psicosociale al di fuori del mondo accademico ed è impegnata nella diffusione di queste conoscenze, nell’ambito professionale. È autrice di due libri, l’ultimo “Project Management, Fondamenti psicosociologici di Leadership e Comunicazione nella gestione dei Gruppi di lavoro. (2021). Sensibile allo sviluppo del potenziale umano, si è dedicata allo studio della Philosophia Perennis e in questo contesto ha approfondito lo Yoga e le diverse forme di meditazione.
Cura il blog https://www.leadershipcomunicazionegruppi.com/

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