Una possibile via per contrastare il burnout
Il generale cinese Sun Tzu nel suo manuale “L’arte della guerra” sostiene che “se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura”. Da qui la scelta di mantenere alta la guardia verso l’infido fenomeno del burnout nella consapevolezza che sapendone di più si possa prevenirlo e batterlo
Il male-essere nel lavoro genera stress
Il fisiologo statunitense Walter Bradford Cannon[1] negli anni venti del secolo scorso dedicò gran parte delle proprie ricerche ad analizzare gli effetti della sollecitazione emotiva rispetto alle manifestazioni somatiche e comportamentali giungendo per primo a ipotizzare un particolare pattern di risposta di stress dinanzi a situazioni di disagio.
Senza entrare qui e ora nel merito delle considerazioni svolte dalla schiera di autori che hanno successivamente analizzato e approfondito il problema dello stress vale la pena, però, mettere in evidenza l’opera di Lazarus e di Folkman che hanno posto l’accento sulla circostanza che, laddove l’individuo valuti quanto sta accadendogli come eccedente le proprie risorse, egli si determina a prefigurare che il proprio bene-essere è messo in pericolo. E ciò non solo dinanzi a stress psicofisiologico, ma anche a quelli psicosociali connessi cioè agli eventi fondamentali della vita, che costringano la persona ad affrontare dei cambiamenti significativi nella propria quotidianità con conseguente impegno per adattarvisi[2].
Ai nostri autori fanno seguito gli studi, volti principalmente nell’ambito sociosanitario, di Freudenberger, che risulta esser il primo ad associare al concetto di stress il termine burnout[3]. Alla ricerca dello scienziato, quindi, si deve il merito di avere saputo cogliere ed esporre le condizioni di esaurimento fisico ed emotivo riscontrate tra gli operatori che, impegnati nell’attività di aiuto, manifestavano forme di tensione emotiva originata dal contatto e dall’impegno continuo ed intenso con gli assistiti, i loro problemi e le loro sofferenze. Questa rappresentazione del disturbo vede la persona al lavoro attore di un ruolo attivo in quanto può influenzare l’impatto del fattore stressante mediante strategie cognitive, emozionali e comportamentali finalizzate al controllo delle proprie reazioni emotive e per questo a rischio di sentirsi “bruciato”, “esaurito”, “scoppiato”.
Lo stress correlato al lavoro porta alla “sindrome del burnout”
Forte degli studi e delle ricerche di cui si è data contezza Cherniss evidenzia come il fattore stress correlato al lavoro si manifesti con un complesso di sintomi che caratterizzano una situazione morbosa, che egli definisce “sindrome del burnout”; la persona che ne sia colpita percepisce le condizioni lavorative come intollerabili. Effetto della sindrome, infatti, è una insoddisfazione che riduce il lavoro, prima inteso come “vocazione”, ad una prestazione che non ha più la capacità di stimolare interesse né senso di responsabilità determinando un vero e proprio “stato di abbandono”[4]. Quanto sin qui esposto porta a concludere che il burnout è una malattia da non sottovalutare, anche perché si diffonde nel tempo con costanza e gradualità risucchiando le persone in una spirale discendente dalla quale è difficile riprendersi.
Consapevoli di ciò Maslach e Leiter sfatano il mito comune secondo cui quando i lavoratori soffrono di stress da lavoro sono essi gli unici responsabili della loro reazione negativa e chiariscono che la colpa va fatta ricadere sulle spalle dell’organizzazione[5]. Ma vi è di più: i nostri, nella consapevolezza che esistono possibili legami tra burnout e malattia mentale, perorano il valore del ruolo della psichiatria come scienza in grado di rafforzare sia le risorse psicologiche che quelle situazionali e intervenire preventivamente sulle persone al lavoro così da prevenire le situazioni di crisi[6].
Faber, dal canto suo, nel delineare il burnout come stress lavorativo prolungato nel tempo, sottolinea che esso è caratterizzato dalla percezione che il soggetto ha di essere in una situazione senza prospettive che non lascia intravedere una via d’uscita[7].
Se l’insorgenza della “sindrome del burnout” può essere conseguente alla non corrispondenza tra quello che le persone sono e quello che le persone al lavoro vengono chiamate a fare va da se che l’ambiente lavorativo, inteso come articolazione della organizzazione in cui operano gli interessati, incide fortemente sulla “sindrome”: certamente influiscono sulla reazione quei processi di ristrutturazione che generano assetti organizzativi squilibrati vieppiù ove quella riorganizzazione comporti anche la ridefinizione di profili professionali; incidono sulla comparsa dello “stato di abbandono” anche gli stili di comunicazione problematici, l’assenza di adeguati sistemi premianti ed emergono quei fattori di rischio che necessitano azioni di protezione.
Gli agenti causali del burnout
La patologia “sindrome del burnout”, dunque, è il portato di una situazione lavorativa avvertita come intollerabile, capace di generare un senso d’impotenza, dovuta alla convinzione di non poter fare nulla per modificarla eliminando l’incongruenza tra ciò che l’organizzazione ritiene che l’utente si aspetti e ciò che l’operatore è in grado di offrire.
Siccome per fronteggiare il male-essere occorre conoscerne la eziologia, di fondamentale importanza appare in questa sede dare contezza dei principali agenti causali del burnout. Una serie di ricerche[8] ha posto l’accento sui seguenti fattori:
- eccessiva mole di lavoro, soprattutto negli ambiti in cui il tempo per svolgere le varie mansioni risulti insufficiente e tale da generare quello stato tensivo;
- incertezza nei ruoli ricoperti, che riguarda in particolare i casi in cui più persone debbano lavorare insieme. L’incertezza porta a non ritrovare punti di riferimento a cui rivolgersi per le varie evenienze con conseguenze poco lineari sull’andamento delle attività e pregiudizio per l’intero gruppo di lavoro;
- pressione da parte del management: è il caso che si verifica allorquando un superiore non sostiene le persone al lavoro o addirittura fa nascere stati conflittuali generando un calo dell’autostima;
- conflittualità con i colleghi, che incrementa tensioni relazionali sul luogo del lavoro ostacolando la cooperazione tra gli individui;
- inadeguatezza del ruolo assunto a fronte della quale, tuttavia, il management non abbia l’accortezza di porre in essere azioni di formazione e di incentivazione.
Va da sé, proprio perché si tratta di patologia relativa alla persona, che accanto alle cause esposte sicuramente ha ruolo anche la variabile individuale costituita da fattori quali l’età, il sesso, il titolo di studio, la motivazione lavorativa, la soddisfazione extra-lavorativa; né si devono ignorare, da un lato, le varianti socio-culturali relative all’organizzazione sociale collettiva, alla storia politica e culturale, all’evoluzione dei costumi, dall’altro, gli ambiti di lavoro sfavorevoli re l’assenza di un adeguato grado di serenità[9].
Il bene-essere organizzativo e il ruolo del management
Contrariamente alla opinione comune, dunque, non è tanto la persona al lavoro a dover cambiare quanto l’organizzazione, specialmente nell’attuale scenario socio-economico. Ciò vieppiù in quanto, ove non prevenuto né contenuto, il burnout può cristallizzarsi in una entità clinica che invalida il lavoratore (fisicamente e psichicamente) con riverberi di non scarso rilievo anche sulla organizzazione di cui fa parte e persino sulla società nel suo complesso. Da qui la ineludibile necessità di attrezzarsi per fronteggiare un fenomeno che incide vuoi sulla finanza delle imprese (per effetto dello scarso rendimento o dell’assenza dal lavoro degli individui interessati) vuoi sull’economia complessiva del Paese (si pensi al peso sul Sistema sanitario nazionale del ricorso alle cure mediche occorrenti).
Di tutta evidenza risulta allora che il bene-essere delle persone al lavoro merita attenta valutazione da parte del management in maniera che in ambito di prevenzione e di rimozione dei rischi propri dei cicli lavorativi siano adottate anche le misure riguardanti pure quelli psicologici. E ciò è tanto vero che la più recente normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro prevede di prendere di non trascurare anche i rischi “collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004”[10].
Si badi bene, però, a non ridurre l’impegno alla prevenzione affidato al management semplicemente alla redazione del “Documento di Valutazione dei Rischi” (DVR) atteso peraltro, come già detto, che sussistono concrete ragioni di convenienza economica che reclamano azioni volte a scongiurare le patologie correlate al male-essere lavorativo.
Non potendo dettare una ricetta efficace in assoluto, replicabile sia nelle imprese che nella pubblica amministrazione si può certamente affermare che il bene-essere richiede innanzitutto una nuova cultura del lavoro prima ancora che il cambio dei modelli organizzazione dello stesso. Da qui la necessità di prendere le mosse a partire da un focus sulle qualità culturali dei dirigenti, atteso che la presenza di un management dotato della leadership adeguata certamente risulta determinante per il successo dell’organizzazione in termini non soltanto di efficienza ma anche di maggiori profitti.
Proprio la selezione e il reclutamento dei manager dunque sembra essere il primo indispensabile gradino verso il bene-essere organizzativo: la scelta di quelli giusti non potrà prescindere dal possesso della capacità di puntare proprio su valori e stili propri della “leadership creativa”, espressione della logica il più possibile organicistica e meno meccanicistica, centrata su una maggiore attenzione alle persone, ai loro bisogni e aspettative. Si deve guardare dunque alla figura del “leader empowering”, allenatore e consulente, teso a costruire legami in grado di liberare intelligenza e creatività per generare comportamenti finalizzata al successo della organizzazione, poiché disponibile a farsi permeare in una relazione di scambio e di contaminazione nella certezza che le persone non sono solo costo o risorse da amministrare.
A questo management si può e si deve domandare di attuare una formazione di qualità inserita in un percorso di lifelong learning che faccia accrescere nelle persone al lavoro, attraverso il pensiero riflessivo, la consapevolezza del ruolo e della funzione e non solo implementare le conoscenze dei destinatari della formazione.
Una formazione il più possibile espressa attraverso lo strumento delle Comunità di pratica[11] che costituiscono l’opportunità per privilegiare il confronto e la comunicazione condivisa vieppiù ove siano costituite anche dai lavoratori di esperienza e prossimi al collocamento a riposo ai quali affidare il compito di affiancare le giovani leve verso un processo adattivo funzionale a gestire il peso dei limiti determinati dal nuovo o dall’imprevisto, in grado di accrescono l’energia, il coinvolgimento e l’efficacia.
Note
[1] Cannon W. B., “The Adrenal Medulla”, Bulletin N Y Academy of Medicine, 1940, 16, pp.3-13.
[2] Lazarus R. S., Folkman S., Stress, appraisal, and coping, Springer publishing company, New York,1984. Gli autori, in particolare, definiscono lo stress psicologico una particolare relazione tra la persona e l’ambiente che è considerato dalla persona come gravoso e portatore di richieste che superano le proprie risorse e danneggiano il proprio benessere. Per “fronteggiare” il pericolo percepito introducono il concetto di coping quale processo adattivo dato dagli sforzi operati per gestire le richieste del contesto.
[3] Freudenberger H.J., “Staff burn-out”, Journal of Social Issues, n. 30, 1974, p.160.
[4] Cherniss C., Staff Burnout Job stress in the Man Service, Beverly Hills Stage Publication, 1982.
[5] Maslach, C. and Leiter, M. P. (2008) “Early Predictors of Job Burnout and Engagement”, Journal of Applied Psychology, 93, 2008, 498-512.
[6] Maslach, C., & Leiter, M. P., “Understanding the Burnout Experience: Recent Research and Its Implications for Psychiatry”. World Psychiatry, 15, 2016,103-111
[7] Cfr. Farber B.A., A critical prospective on Burn-out, in Stress and burn-out in the Human Service Professions, Pergamon Press, New York, 1983.
[8] Cfr. Falco A., Dal Corso L., Sarto F., Vianello L., Girardi D., Marcuzzo G., Magosso D., De Carlo N. A., Bartolucci G. B., “Il ruolo degli indicatori oggetti e intersoggettivi nella valutazione del rischio stress lavoro – correlato: il Metodo di Valutazione per gli Indicatori di Stress”, Italian Journal of Occupational and Environmental Hygiene. 2010, n. 1 (3 – 4).
[9] Cfr. De Giosa V., Di Sabato Tommaso, Le organizzazioni di successo, Youcanprint, Lecce, 2020.
[10] Il riferimento è al D. Lgs 9 aprile 2008, n. 81 “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” (G.U. n. 101 del 30 aprile 2008), che rende in forma articolata il dovere di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro disposto dall’art.2087 del Codice Civile.
[11] Le Comunità di pratica a cui più volte si è fatto riferimento anche su questo Magazine rappresentano una esperienza formativa in grado sia di favorire processi d’identificazione sia di generare apprendimento organizzativo in quanto realizzano uno spirito collaborativo, prodromico, da un lato, ad incrementare i saperi dei singoli; dall’altro, a indurre l’attivazione di processi concreti e consapevoli di rinnovamento delle organizzazioni di riferimento che hanno alla base il medesimo senso d’identità professionale.
Articolo a cura di Tommaso Di Sabato
Docente presso la Scuola di Alta Formazione della UNINT- Roma e Collaboratore del Consorzio Interuniversitario sulla Formazione – Torino.
Già Direttore vicario della Ripartizione Risorse Umane di UNISALENTO e Professore a contratto dei Corsi di Laurea in Scienza dell'Amministrazione - Facoltà di Giurisprudenza di UniTELMA – Roma.