Vizi privati e pubbliche virtù dello “Stakeholder Management”
Con “stakeholder management” si intende un modello di gestione aziendale che considera l’impresa non solo come un attore economico finalizzato a creare valore per i suoi azionisti, ma come un attore sociale responsabile dei più vari effetti delle proprie azioni nei confronti di tutti i soggetti con cui interagisce: clienti, dipendenti, fornitori, sindacati, politica, comunità locali etc.
Che una azienda viva di relazioni con l’ambiente in cui opera, prosperi solo se queste sono positive, e si dedichi anche ad attività sociali non è certo una novità. La novità del modello sta nel dare molto più peso a queste relazioni, e a coinvolgere i soggetti esterni nel decidere come operare. Il vero tema dunque dello stakeholder management è a chi spetti il potere di governare le aziende, stabilirne obiettivi e modi di agire.
Lo “stakeholder” nasce in polemica con il modello di “shareholder” management, ben riassunto così da Milton Friedman: “The business of business, is business”. Il ruolo del manager è solo quello di far prosperare l’azienda, che esiste per remunerare il capitale di chi ci investe. Definire le condizioni con cui opera nella società è compito della politica e del mercato: l’azienda è socialmente responsabile se rispetta leggi, buona fede e contratti. Per capire come questo modello è nato e poi andato in crisi, occorre fare un passo indietro.
Fino agli anni ’80, il modello vincente non era lo “shareholder management”, ma il cosiddetto “managerial capitalism”: il potere più che gli azionisti era in mano ai manager delle grandi corporations. Il contesto economico infatti sino a poco prima garantiva agli investitori una crescita sostenuta e costante: da qui ampie deleghe al management, utilizzate (si scoprì poi) più per costruire posizioni di potere e far crescere ad ogni costo le proprie organizzazioni, che a sviluppare sane e sostenibili strategie aziendali. Acquisizioni, centralizzazioni, diversificazioni: una occupazione di spazi, che generava inevitabilmente perdita di focus, sprechi, abusi. Era l’epoca non dei grandi imprenditori, ma dei grandi CEO, da Valletta a Jack Welch.
Questo modello naufragò dopo la crisi degli anni’70. Con la crescita arenata e produttività in calo, gli errori passati producevano enormi indebitamenti. Nacque così la “finanziarizzazione” dell’economia, termine oggi spregiativo ma basato su un principio ovvio: entro certi limiti, il business è una scienza esatta, e se certi parametri finanziari non fanno da bussola per il governo delle imprese, queste crollano come crollano i ponti. ROI, ROCE, cash flow, CAGR, TSR divennero dei mantra, legando ben di più i manager agli interessi degli azionisti, spesso fondi sempre più competenti ed esigenti.
Lo shareholder management era un brusco richiamo alla realtà: le aziende esistono solo se c’è chi ci investe in vista di adeguati ritorni. Vi fu un processo parallelo in politica: con gli anni’80 andava in crisi il modello welfarista, che spendeva troppo e aumentava gli appetiti invece di soddisfarli, a favore di governi liberisti focalizzati sulla creazione di ricchezza prima che sulla sua redistribuzione. Si parlava di sconfitta del “modello renano” burocratico, a favore di quello anglosassone regolato dal mercato. Il potere nelle aziende torna in mano ai proprietari, e lo “shareholder value” diventa il nuovo vangelo.
Ma un capitalismo dalle mani libere abbonda di nemici, avendo emarginato dal controllo dell’economia politica, sindacato, media, intellettuali. Commette anche drammatici errori: la esasperazione della logica finanziaria, unita a gravi conflitti di interesse, contribuisce a creare la crisi del 2008, e offre lo spunto per la controffensiva, su tre fronti imponenti e non eludibili: l’ambiente, la globalizzazione, le ineguaglianze.
Sul fronte ambientale, benché a contribuire al global warming sia soprattutto lo sregolato mondo dei paesi emergenti, le multinazionali occidentali diventano il “nemico pubblico”: il feeling ecologista è ormai così diffuso, che per essere sotto accusa non occorre violare norme ambientali, evento per fortuna raro sebbene le stesse diventino più stringenti, ma è sufficiente lasciare una “traccia ambientale” visibile nel proprio processo produttivo (e questi ne lasciano certamente parecchie).
Sul fronte globalizzazione, la concorrenza low cost dei paesi emergenti porta molte aziende a delocalizzarsi proprio in quei paesi, e ad avviare un logorante percorso di efficientamenti che le rendono più snelle, creando però disoccupazione e rendendo dura la vita a dipendenti e fornitori. E quando una azienda si ristruttura per sopravvivere, l’attenzione pubblica è tutta sull’arto tagliato, non sul corpo che si risana.
Infine, un paradossale effetto del “riallineamento” tra azionisti e top manager è che questi ci perdono in serenità, ma ci straguadagnano in quattrini: legare i compensi al valore creato vuol dire ricchi piani “win-win” di stock options o grants, che in anni di grande crescita borsistica producono esorbitanti e non sempre comprensibili bonus, e le conseguenti polemiche sulle crescenti disuguaglianze e sui “pay ratio” aziendali.
Politica, media, sindacato, pure il Papa sono quindi oggi concordi: il mondo del business non è fonte di sviluppo, benessere, innovazione, opportunità, ma è una élite di insaziabili speculatori che distruggono l’ambiente, affamano i popoli, sfruttano i dipendenti e ingannano i consumatori, distruggendo le comunità non appena si abbassa la guardia. Lo stakeholder management ritiene che le grandi aziende siano per loro natura “cattive”: se ci tengono alla reputazione, devono redimersi e fare penitenza, diventare “socialmente responsabili”. Il sottinteso è che, prima, non lo erano.
Le aziende, che condividano o no questa visione brutale del business, devono affrontare con intelligenza questa sfida, e molte lo fanno addirittura con entusiasmo (a chi non piace vestire i panni del “buono”?): “E una grande opportunità!”. Lo è, ma non senza rischi: la questione infatti non è se bisogna “comportarsi bene”, ma chi decide cosa vuol dire, comportarsi bene.
L’aspetto virtuoso dello stakeholder management sta nel fatto che è vero che molte aziende hanno approfittato di posizioni di potere verso terzi per abusarne, e che questi abusi non sono solo eticamente inaccettabili, ma anche alla lunga pessimi in termini di competitività. Strapotere di mercato che porta a gestire i clienti con fastidio e i fornitori con sadismo, gestione del personale spregiudicata, compensi apicali decisi in conflitto di interessi, politiche commerciali opache, pratiche ambientali disinvolte. Queste azioni sono possibili dove vi è una governance inadeguata o un mercato viziato, e lo stakeholder management aiuta a identificarle e correggerle: ben vengano attori esterni dove per conflitti di interesse o scarso controllo le aziende non sanno autoregolarsi. E’ bene dare più voce ai consumatori sui loro diritti, più peso alle assemblee dei soci sui compensi del vertice, più trasparenza nei rapporti tra business e politica e sugli impatti ambientali: in una parola, più “accountability” da parte dell’azienda in tutte le esternalità che crea e negli impegni che assume. Alle aziende, non fregare nessuno conviene in termini di efficienza oltre che di reputazione.
Un esempio evidente riguarda le tematiche ambientali. Nulla è più ecologicamente corretto di un processo aziendale ipererefficiente: se una azienda non spreca risorse, e ne consuma il meno possibile, l’impatto è positivo sia sulla “global footprint” che sui conti economici. Se l’ambientalismo basato sulla “decrescita felice” è a dir poco opinabile, quello che nasce dal “more with less” è perfetto: meno scarti, meno consumo di energia, meno movimentazioni, meno imballaggi, più riciclo: prima di Greta, lo sostenevano i profeti del “lean management”. Lo stesso vale per la sicurezza sul lavoro: impegni ambiziosi da parte del management, collegati alle loro remunerazioni, migliorano sia la salute dei dipendenti che la loro produttività.
Fin qui, tutto bene. Vincono tutti. Ora vediamo i rischi. Tre sono i lati oscuri dello stakeholder management: la colpevolizzazione dell’impresa, la perdita di ownership strategica, la sottovalutazione del profitto.
Dal punto di vista etico, molti avvocati dello stakeholder management vogliono non tanto cambiare le cattive pratiche del mondo del business, quanto mettere sotto processo il modello economico della libera impresa. Le aziende sono il nemico, sono “cattive”, e possono emendarsi solo se si fanno guidare nel realizzare “un mondo migliore” secondo un’agenda stabilita da politici e gruppi di pressione, che apparentemente non si può non condividere: chi non vuole più rispetto per l’ambiente, meno povertà, nessuna discriminazione? Ma chi stabilisce come raggiungere questi fini, e cosa è giusto o sbagliato, visto che le vie dell’inferno sono notoriamente lastricate di buone intenzioni? Vediamo degli esempi di presunte “malpractices” da evitare.
Delocalizzazioni e licenziamenti. Delocalizzare colpisce pesantemente specifiche località e molte persone. Ma ne beneficia altre: è etico privare una povera comunità in Asia di una opportunità di uscire dalla miseria per tutelarne un’altra che vive nella prospera Europa? A prescindere dal beneficio che la delocalizzazione porta a tutta l’azienda, la vita di un pakistano conta meno di quella di un varesotto? Ogni comunità si batte doverosamente per tutelare i propri interessi, ma l’etica non c’entra. Lo stesso vale per molti licenziamenti: è etica l’azienda che internalizza servizi esterni, per non licenziare? Toglie il lavoro a lavoratori autonomi, privi di ogni tutela, a favore di dipendenti che godrebbero, nella sfortuna, di CIG, NASPI, “scivoli” etc. Provvedimento legittimo per avere pace sindacale e proteggere persone conosciute: ma dov’è l’etica?
Il tema gender. Che le aziende, composte da persone che vivono la cultura del tempo, abbiano in passato penalizzato il genere femminile su più fronti, è certo. Anche oggi accade, pur se la cultura dei ceti professionali è totalmente cambiata, ma certo molto meno di quanto si dica, e ancor meno di chi le aziende le accusa. Non lo si dice, ma è un fatto che, giudizialmente, le sentenze di condanna per discriminazione sono un numero infimo, così come rare sono le prevaricazioni segnalate dalle varie “Consigliere di parità”. Minimo poi è il reale “gender pay gap” dovuto alla discrezionalità aziendale: il gap esiste più nelle mansioni in cui non vi è intervento aziendale, applicandosi i puri livelli contrattuali, e persino nel pubblico impiego, che a livello di management, se davvero misurato a parità di mansione, anzianità etc. Soffitto di cristallo e gender gap sono problemi reali, ma nascono nella società, non in azienda: chi accusa evita sempre di guardare in casa propria. Quante femmine dirigono giornali, sono rettori universitari o ai vertici della Magistratura e della PA? Per non parlare del sindacato, dove le occasionali Camusso non coprono la stragrande maggioranza di maschi ai livelli dirigenziali. Sui temi gender, inclusione e “diversity”, le aziende, essendo per necessità meritocratiche, pur potendo sempre fare meglio, sono più nella condizione di dare lezioni, che di doverne prendere. Il tema è poi scivoloso, se si parte dal presupposto che ogni differenza è discriminazione: negli USA già emerge il “racial pay gap”, e seguiranno il “religion”, il “geographical”, fino al “name pay gap” da sanare: uno studio UK ha dimostrato infatti differenze di stipendio fino al 30%, a seconda del nome di battesimo, nelle aziende inglesi!
Infine, il profitto. Oggi quasi una parolaccia, per molti è l’esagerato e parassitario guadagno del capitalista, rubato all’onesto lavoratore: il marxiano “plusvalore”. Guardiamo però i numeri: l’investitore, da un’azienda sana, può ottimisticamente aspettarsi come dividendi, post imposte, un 2-3% della cifra d’affari. Rischia cioè del suo per generare 100, di cui 97 va in fatture a fornitori, stipendi ai dipendenti o imposte. Al di là del valore di fornire alla comunità qualcosa di cui necessita, l’imprenditore per ogni € che tiene per sé ne distribuisce 30 e più alla “società”: si potrebbe pensare, e sino a ieri lo si pensava, che la responsabilità sociale sia già così soddisfatta.
Ma il valore sociale del profitto è anche nell’essere la bussola della salute aziendale. Il profitto dice se le strategie sono giuste, le risorse ben allocate, gli acquisti giudiziosi, il personale motivato e competente, sprechi e abusi evitati. Senza una ragionevole continuità di utili e una sana ossessione per i profitti, le aziende muoiono, perché manca la benzina per andare avanti, il capitale. Stupisce che i profeti della “Sostenibilità” non dicano che il suo primo requisito è finanziario: ricordava Lady Thatcher che il buon Samaritano non è famoso per le sue buone intenzioni, ma perché aveva anche del denaro per realizzarle.
Quindi ben venga lo stakeholder management, se integra il “tableau de bord” aziendale con la ripianatura delle esternalità create, e attiva pratiche che fanno bene sia al mondo che a loro stesse. Ma occorre non distrarsi dalla via maestra della profittabilità, e stare attenti a non mettere il timone aziendale parzialmente in mano a chi la nautica non la capisce e non la ama. Infine, considerato quanti, nella comunità, vivono solo grazie al fatto che qualcuno le aziende le ha create e le nutre, sarebbe bello se chi viene a dare loro istruzioni sul come aiutare a costruire un mondo migliore, iniziasse il rapporto con un sincero “grazie di esistere”.
Articolo a cura di Gianbattista Rosa
E’ Vice Presidente di Ikaria Consulting, nonché Presidente di Active Ageing Academy, associazione che si occupa dei temi legati all’invecchiamento della forza lavoro. E’ inoltre Senior Advisor su temi di Executive Remuneration, dove ha collaborato con Hay Group-Korn Ferry.